Quello che più si temeva alla fine si è avverato: 18 mesi dopo la sua prima comparsa tra Liguria e Piemonte, il virus della Peste Suina Africana ha fatto il suo ingresso nei primi allevamenti intensivi in Lombardia, creando uno stato di emergenza nella regione e in tutto il settore suinicolo nazionale, che teme adesso un contagio di massa e perdite per milioni di euro.
Ad oggi sono circa 33mila i maiali abbattuti dalle autorità sanitarie in otto allevamenti intensivi raggiunti dal contagio, tutti in provincia di Pavia, ma il conto è destinato ad aumentare, con l’epidemia che negli ultimi giorni si è avvicinata anche alle aree produttive di Brescia. Secondo gli esperti, inoltre, esiste un rischio molto elevato di nuovi focolai anche in altre regioni nei prossimi mesi.
«Sono stati colpiti otto allevamenti, parliamo di diverse decine di migliaia di capi coinvolti», ha raccontato al Corriere della Sera Francesco Feliziani, dirigente dell’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Umbria e delle Marche, che svolge le funzioni di Centro di referenza nazionale per la Peste Suina Africana. “La regione Lombardia sta facendo di tutto per limitare la dimensione del focolaio, gli sforzi sono tutti tesi a limitare e contenere l’infezione”, ha detto Feliziani.
Abbattimenti di massa
L’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Pavia ha affermato che «sul territorio di Pavia, per scongiurare l’attuale diffusione epidemica del virus della Peste suina africana negli allevamenti di suini, gli animali coinvolti vengono storditi e abbattuti nel rispetto del Regolamento 1099/2009 – entrato in vigore nel 2013 – attraverso l’utilizzo di miscele gassose, di comprovata efficacia e approvate dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare». L’Ats di Pavia ha replicato anche che »il personale addetto all’abbattimento adotta tutti i provvedimenti necessari a evitare e ridurre al minimo dolori, ansia e sofferenza degli animali, tenendo conto delle migliori pratiche nel settore e dei metodi che il regolamento consente».
Un’epidemia annunciata
Il virus della Peste suina africana responsabile dell’attuale epidemia ha fatto la sua comparsa in Italia a gennaio 2022, tra le provincie di Genova e Alessandria. «La situazione da allora è decisamente evoluta», afferma Feliziani. Nell’arco di 18 mesi l’areale di infezione si è esteso a molte altre regioni al nord (Lombardia e Emilia Romagna), al centro (Lazio) e al sud (Calabria, Campania e Basilicata).
In provincia di Pavia il primo caso accertato di animale selvatico ucciso dal virus risale a giugno 2023, mentre il contagio nel primo allevamento è avvenuto a inizio agosto 2023, ma è stato segnalato solo nei giorni scorsi. A causa di questo ritardo tre persone (tra cui un veterinario e il titolare di un’azienda) sono finite sotto indagine da parte della Procura di Pavia.
La comparsa del virus negli allevamenti era stata ampiamente prevista dagli esperti già a inizio 2022. «Abbiamo visto che dove c’è il cinghiale portatore del virus, ineluttabilmente prima o poi il maiale viene infettato», ci aveva detto in quei giorni Vittorio Guberti, esperto di Peste suina africana per l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). «Questo virus resiste molto a lungo nell’ambiente, che quindi si riempie di virus. E qualsiasi attività tu faccia nell’ambiente, prima o poi porti il virus nel sistema antropico, che include l’allevamento del maiale».
A causa di questa ineluttabilità, oggi l’industria zootecnica e le autorità temono per la presenza del virus in altre zone della Lombardia e anche dell’Emilia Romagna (per ora un solo caso di animale selvatico accertato in provincia di Reggio Emilia). La paura riguarda la diffusione negli allevamenti in Pianura Padana, dove si concentra l’85 per cento dei suini allevati in Italia, che comporterebbe perdite economiche per decine o centinaia di milioni di euro.
All’inizio dell’epidemia gli esperti – tra cui Guberti e Feliziani – avevano lavorato a un piano di eradicazione del virus che si basava sulla creazione di barriere e recinzioni per evitare lo spostamento degli animali selvatici e l’ulteriore diffusione del virus nei territori limitrofi. Il piano però non è mai stato attuato: «Le barriere che erano state ipotizzate come strumento fondamentale – afferma Feliziani – sono state realizzate in parte e con grosso ritardo».
Al contrario, nell’ultimo anno proprio la caccia al cinghiale in braccata avrebbe favorito l’espansione del virus, in particolare nei mesi invernali, incentivando lo spostamento degli animali, ma anche per la massiccia presenza di uomini e mezzi nei territori contaminati. Il virus infatti può sopravvivere per mesi sul terreno, e quindi contaminare facilmente la suola suola di una scarpa. Secondo le indicazioni di Ispra, sarebbe quindi «fortemente consigliato evitare qualsiasi attività che possa causare la dispersione degli animali sul territorio e con essa la possibile diffusione del virus, sia in modo diretto, aumentando la mobilità di eventuali cinghiali infetti, sia in modo indiretto, come effetto della contaminazione di indumenti, scarpe, materiali e veicoli».
Negli ultimi giorni le regioni hanno approvato un nuovo piano per contrastare l’emergenza, elaborato dal Commissario Straordinario per l’emergenza Peste suina africana Vincenzo Caputo. La strategia ancora una volta punta all’eradicazione del virus attraverso la caccia al cinghiale, con l’idea di abbattere circa un milione di capi, di cui 650 mila solo nel primo anno di attuazione.
Un virus inarrestabile
L’Italia non è l’unico Paese che si trova a fronteggiare l’inarrestabile avanzata dell’epidemia di Peste suina africana. In Europa la Svezia è l’ultima ad aggiungersi a una lista di oltre 2mila focolai in 14 Paesi, tra cui Bosnia, Croazia, Serbia, Romania, Germania, Polonia, Moldavia, Bulgaria, Kosovo, Lituania, Slovacchia, Ucraina. Ad oggi gli unici che sono riusciti a combattere il virus sul proprio territorio sono il Belgio, che realizzando 350 km di barriere artificiali è riuscito a eradicare l’infezione, e la Germania, che con ingenti investimenti e 3500 km di barriere ha circoscritto l’epidemia ai territori orientali, lungo il confine con la Polonia. Proprio la Polonia, al contrario, ha basato la propria strategia sulla caccia al cinghiale, ottenendo finora l’effetto controproducente di favorire la diffusione nei territori limitrofi.