Il primo di ottobre dovrà entrare in vigore il Patto anti-inflazione, fortemente voluto dal ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso con l’obiettivo di costruire un paniere di prodotti di prima necessità a prezzi calmierati. La genesi dell’intesa è stata però piuttosto controversa, con l’industria della trasformazione che si è opposta con decisione e ha accettato di firmare solo in un secondo momento. Secondo Federalimentare, infatti, al contenimento del carrello della spesa le imprese hanno già contribuito riducendo il margine lordo dal 10,3% medio nel 2019 al 5,7% nel 2022. Ecco perché, all’interno di questo contesto, ricostruire la catena del valore dei beni alimentari dal campo alla tavola costituisce uno strumento interessante per fare chiarezza su dove si possano annidare le maggiori spinte all’aumento dei prezzi.
I calcoli arrivano dalla società di consulenza Gea, che ha analizzato un paniere rappresentativo di prodotti venduti attraverso la distribuzione moderna in Italia. «Il ricarico maggiore – spiega Tito Zavanella, senior partner e presidente di Gea – avviene sui prodotti freschi, che infatti hanno bisogno di spazi più costosi da gestire sia nella movimentazione che nello stoccaggio e nella conservazione. Senza contare la shelf-life più corta, che determina maggiori rischi e costi certi di smaltimento, tutti a carico del distributore».
Su biscotti e merendine, invece, fatto 100 il prezzo di uscita dalla fabbrica, il trasporto ci mette un ulteriore 9-11%, l’Iva aggiunge il 10%, ma quello applicato dal distributore è un ricarico tra il 35 e il 40%. Per quanto inferiore a quello dei prodotti freschi, resta pur sempre un margine consistente. E il prezzo finale dei biscotti, così passa dall’iniziale 100 a quota 163.
Stando al Rapporto Coop 2023, nei prossimi mesi il 36% degli italiani è pronto a ridurre i consumi: di fronte ad un allarme di questo genere, diminuire le marginalità potrebbe contribuire ad allentare la pressione. La distribuzione moderna può farlo? «Una quota consistente dei costi sostenuti dai distributori è dovuto all’ampiezza degli assortimenti gestiti – spiega Zavanella – per lo yogurt, per esempio, in Italia superiamo ormai le 1.600 referenze tra marchi, formati, tipologie e gusti. E la complessità genera costi: non solo nei magazzini e nei punti vendita, ma anche in tutte quelle strutture non visibili al consumatore. Il tutto dimostrabile dalle redditività di questi operatori, riscontrabili dalla semplice lettura di un loro bilancio».
Ridurre la varietà, insomma, potrebbe contribuire ad abbassare i costi di gestione e, di conseguenza, a diminuire i prezzi finali nel carrello. Di quanto? Dirlo con esattezza è difficile, ma gli stessi consulenti di Gea ricordano che i discount, in media, applicano un margine del 20%. Certo, a consentire di abbassare così tanto il ricarico non è solo la riduzione degli assortimenti, ma anche la collocazione dei punti vendita nelle città o l’organizzazione più spartana degli spazi. Ma il contributo di un assortimento ridotto alla contrazione dei costi è certamente significativo.