Il Sole 24 Ore. Un programma di finanza pubblica che per l’anno prossimo prevede una riduzione del debito in formato mini, sette decimali di Pil, nell’ipotesi di una crescita del prodotto interno lordo a +1,5% che supera tutte le previsioni più recenti. Un complesso di scelte obbligate o quasi che dal cuneo fiscale alla sanità, dal pubblico impiego alle missioni internazionali fino al sogno mai realizzato del Ponte sullo Stretto fanno in fretta a cumulare interventi per oltre 30 miliardi prima ancora di pensare a nuove misure per rilanciare un’economia che rallenta e sostenere famiglie e imprese colpite dalla lunga ondata inflattiva. Il ritorno delle regole fiscali Ue dopo quattro anni di sospensione pandemica prima e bellica poi. E a giugno elezioni europee considerate decisive per consolidare gli assetti politici di Roma e modificare quelli di Bruxelles.
Congiuntura complicata
L’incrocio fra i problemi strutturali del bilancio italiano, i colpi congiunturali prodotti da guerra, tassi e inflazione e le agende di Unione europea e partiti italiani trasforma la Nota di aggiornamento al Def di settembre, e di conseguenza la legge di bilancio di ottobre, in un sudoku per solutori più che abili. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che lo sa bene, ha concluso nei giorni scorsi il primo giro d’orizzonte con i ministri, a cui ha chiesto di selezionare al massimo le richieste di spesa perché le esigenze sono tante e i soldi sono pochi. E ogni margine, è la convinzione che domina al vertice del Mef, va concentrato sul lavoro, primo motore per una ripresa.
Prudenza obbligata
«Saremo prudenti». Schiacciando sull’assist offerto dall’elogio dell’impegno italiano scritto dal Fondo monetario internazionale nella sua pagella periodica, dieci giorni fa il titolare di Via XX Settembre ha rimarcato che «continueremo sulla strada di prudenza, responsabilità e realismo perseguendo l’obiettivo di riduzione del debito pubblico». «Continueremo con le politiche economiche di responsabilità prudente», ha ribadito lunedì scorso dopo i dati Istat sulla frenata del Pil di primavera. Ma non sarà semplice.
Lavoro e pensioni
Un paio di calcoli bastano a misurare l’entità della sfida. L’ultimo Def, seguendo una prassi che si è consolidata negli anni, traccia la rotta prevista per deficit e debito senza considerare nemmeno le «politiche invariate», cioè «spese obbligatorie, tra cui il rifinanziamento delle missioni internazionali» come spiega a pagina 81 lo stesso Documento. Si tratta secondo la Corte dei conti di sei miliardi, tre decimali di Pil, come calcolato nell’ultimo giudizio di parificazione dei conti dello Stato. Basta questo ad assorbire gli spazi, 6 miliardi appunto, messi a disposizione dallo scostamento di aprile (4,5 miliardi) e dalla spending review dei ministeri (1,5 miliardi). Ma non è che un inizio.
Fino a dicembre, per effetto della manovra 2023 che ha ritoccato al rialzo le misure avviate dal Governo Draghi e del decreto Lavoro del 1° maggio, i lavoratori dipendenti con redditi fino a 25mila euro lordi hanno uno sconto contributivo del 7%, che scende al 6% nella fascia 25-35mila euro. L’ipotesi di far tramontare l’agevolazione a gennaio, che si tradurrebbe in un taglio in busta dai 50 ai 100 euro mensili a seconda della fascia di reddito, è impercorribile sul piano politico e su quello pratico, dopo la lunga corsa dei prezzi che fatica a normalizzarsi. Ma la replica richiede intorno ai 9 miliardi, al netto degli effetti fiscali. Condizione analoga anche se meno imponente nelle dimensioni è quella dell’aliquota al 5% per i premi di produttività fino a 3mila euro e dei fringe benefit esentasse, anche loro fino a 3mila euro: su entrambi le ipotesi della vigilia oscillano fra una proroga e un rafforzamento delle misure, in un orizzonte che contempla un impegno da 1-2 miliardi (Il Sole 24 Ore del 18 luglio). Cifra simile circonda il lavoro sull’ennesimo ponte previdenziale (quota 103 scade a fine anno) nella lunga attesa di una riforma delle pensioni perennemente ricacciata fra le ambizioni futuribili dai suoi costi proibitivi.
Sanità e Pa
Con il rinvio a settembre dell’intesa per il contratto dei medici, la sanità evita in extremis il taglio che avrebbe portato la spesa dai 136 miliardi di quest’anno ai 132,7 del prossimo. Ma si tratta solo di un effetto contabile, perché lo slittamento della firma sposta al 2024 l’entrata in vigore del contratto, che riguarda il 2019/21, e quindi gli oltre 2 miliardi di costi che produce. Per ripianare i conti mentre si moltiplicano gli allarmi regionali sui bilanci, il ministero della Salute chiede 4 miliardi.
Pressing analogo arriva dalla Funzione pubblica, da cui i 3,2 milioni di dipendenti della Pa si aspettano almeno un segnale per l’avvio della macchina contrattuale 2022/24, ferma mentre l’inflazione ha colpito duro i salari reali. Segnale che avrebbe bisogno almeno di 3-4 miliardi, per gettare le basi di un rinnovo che si prospetta molto più caro (il recupero integrale dell’inflazione del periodo vale 32 miliardi): la sola conferma dell’una tantum dell’1,5% dello stipendio istituita per quest’anno costerebbe invece poco più di un miliardo al netto degli effetti fiscali.
La riforma fiscale
In un elenco del genere rischia di cadere dal treno della manovra il Fisco. Con l’approvazione della riforma, i programmi prevederebbero ora l’ennesimo “primo modulo”, con cui ridurre da quattro a tre le aliquote accorpando i primi due scaglioni, richiamato dal viceministro alle Finanze Maurizio Leo anche venerdì scorso in occasione del voto finale della delega alla Camera: ma il costo per far salire da 15mila a 28mila euro lordi annui la soglia di reddito per la tassazione al 23% oscilla fra i tre e i quattro miliardi. Da trovare.
E poi c’è il Ponte
Il conto della manovra si allunga poi con lo stanziamento che chiede il ministro per le Infrastrutture, Matteo Salvini, per avviare il Ponte sullo Stretto. Il costo preventivato è di 13 miliardi, e per partire davvero ne servirebbero almeno 1-2 già dal prossimo anno.