Il Sole 24 Ore, Gianni Trovati. Oggi tenta il rush finale il rinnovo del contratto per 120mila medici e quasi 15mila dirigenti sanitari. È un contratto atteso in tutti i sensi, perché per i vecchi ritardi nel finanziamento la trattativa fra Aran e sindacati riguarda il 2019/21: un periodo nato prima del Covid, per intendersi, il che non è un dettaglio soprattutto in sanità.
Anche per questo l’Aran, l’agenzia negoziale del pubblico impiego, ha spinto al massimo con un calendario serrato per arrivare alla firma della pre-intesa prima della pausa estiva. Un accordo fra oggi e domani permetterebbe l’entrata in vigore del contratto e l’arrivo dei suoi riflessi in busta paga prima della fine dell’anno, presumibilmente a novembre. Se il traguardo fosse mancato, il rinvio a settembre della fase finale del negoziato farebbe slittare al 2024 la firma finale, quella che arriva dopo i controlli di Ragioneria generale e Corte dei conti, rimandando quindi aumenti e arretrati.
In gioco ci sono 200-240 euro lordi al mese a seconda dell’inquadramento e un arretrato medio pro capite che si attesta intorno ai 6.800 euro lordi una tantum; in un calcolo che riguarda solo gli incrementi stipendiali e andrà quindi aggiornato con l’effetto sui fondi integrativi. In termini complessivi, gli aumenti a regime valgono 584,6 milioni di euro, a cui si aggiungono 34 milioni per lo sblocco dei fondi accessori, mentre gli arretrati cumulano circa 2 miliardi. Proprio questo aspetto è determinante a creare la gobba della spesa sanitaria che quest’anno è prevista a 136 miliardi, o meglio la sua discesa a 132,7 miliardi scritta nei tendenziali del 2024.
Ma i tempi del rinnovo complicano l’intesa perché fanno coincidere la fase decisiva delle trattative con il pieno esplodere di un’emergenza che nel sistema sanitario covava da anni ed è diventata plateale nella ripresa post-pandemica. L’entità delle carenze strutturali nel sistema sanitario va ben oltre i confini di un contratto, che per di più avrebbe dovuto appunto vedere la luce quando una pandemia era ancora oggetto solo di romanzi distopici, ma investe le trattative.
Più che sulle cifre della parte economica, tutto sommato obbligate dagli stanziamenti analoghi a quelli degli altri comparti della Pubblica amministrazione, il confronto si è fatto più intenso sulle contromisure possibili per tamponare la patologia principale che affligge il personale medico: un affaticamento cronico riassunto nelle circa 300 ore annue di flessibilità chieste mediamente a ogni medico per tappare le falle dei turni secondo i calcoli sindacali. Proprio per questo le ultime bozze per l’accordo puntano a rafforzare la programmazione e le tutele su recuperi e riposi e a fissare vincoli un po’ più rigidi sui limiti a guardie e reperibilità. Intorno al lavoro extra, ai suoi vincoli e ai suoi meccanismi di remunerazione si gioca lo snodo chiave della trattativa in una triangolazione che oltre ad Aran e sindacati coinvolge le Regioni.
Ma come sempre le decisioni finali sulla firma intrecciano scelte politiche di fondo sul segnale da lanciare alla vigilia di una manovra che proprio sulla sanità dovrà affrontare una delle sfide più delicate. Perché non è il contratto lo strumento per risolvere i deficit strutturali della sanità. E non c’è motivazione tecnica che regga di fronte a un calo di fondi 2024 per 3,5 miliardi mentre c’è da ricostruire le condizioni per attrarre nuovi medici e contenere la fuga verso la sanità privata finita al centro delle cronache con la scoperta tardiva del fenomeno dei medici privati a gettone superfinanziati dallo stesso fondo che dovrebbe sostenere il sistema pubblico. Paradossalmente, la mancata firma sposterebbe la spesa per aumenti e arretrati nel 2024, cancellando la flessione di risorse. Con un effetto solo contabile, però, perché i fondi rimarrebbero gli stessi, e a cambiare sarebbe solo il calendario.