Il Sole 24 Ore, Marco Rogari. «Un significativo aumento del rapporto spesa pensionistica-Pil» nei prossimi venti anni. Che, in media, salirebbe di «0,3 punti percentuali»: circa 6 miliardi di qui al 2040. A produrlo sarebbe, secondo le ultime stime della Ragioneria generale dello Stato, un’eventuale ricorso in via strutturale, e non più temporanea, a Quota 103, comprensiva dell’adeguamento biennale alla speranza di vita che è attualmente “congelato”. La previsione dei tecnici del Mef, contenuta nell’ultimo rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, arriva proprio nel momento in cui il governo sta valutando la possibilità di prolungare al 2024 la possibilità di uscita anticipata con 62 anni d’età e 41 di contributi, al momento limitata al solo 2023. IL RAPPORTO
E proprio il tema della flessibilità in uscita, Quote incluse, sarà al centro del nuovo round tecnico in calendario domani tra l’Osservatorio sul monitoraggio della spesa previdenziale e le parti sociali. Con i sindacati che hanno però chiesto la partecipazione anche del ministro del Lavoro, Marina Calderone.
Nel report della Ragioneria generale si sottolinea che «cumulativamente, nell’intero periodo di previsione», che arriva fino al 2070, l’introduzione in via permanente di Quota 103 «pur ipotizzando l’adeguamento del requisito anagrafico agli incrementi della speranza di vita, produrrebbe una maggiore incidenza della spesa in rapporto al Pil valutabile in 8,4 punti percentuali rispetto ai risultati della legislazione vigente». In altre parole, il costo del canale “62+41” in formato strutturale sarebbe di quasi 170 miliardi nell’arco di 50 anni. Il picco di spesa è stimato dagli esperti del Mef al 17,3% del Pil nel 2040, «due anni prima rispetto al valore di massimo previsto a legislazione vigente»: 17% appunto nel 2042. Un valore, quest’ultimo, che nello scenario di Rgs, anche sulla base delle ultime previsioni di finanza pubblica e tenendo conto delle ricadute della legge di bilancio 2023, rappresenta il momento di maggiore impatto delle uscite pensionistiche per effetto delle misure attualmente in vigore.
Nel dossier si ribadisce che nel biennio 2023-2024, la spesa per pensioni «cresce significativamente» arrivando al 16,2% del Pil, sotto la spinta «della elevata indicizzazione delle prestazioni imputabili al notevole incremento del tasso di inflazione». Negli anni successivi il rapporto tende a stabilizzarsi fino al 2029, per poi tornare ad aumentare velocemente fino ad arrivare a quota 17% nel 2042. Ad alimentare la corsa della spesa è anche il moltiplicarsi dei trattamenti pensionistici nel pubblico impiego: dai 2,8 milioni del 2010 al «valore massimo di oltre 3,6 milioni nel 2034», sulla lunga scia delle «massicce assunzioni avvenute dalla fine degli anni ‘70 alla metà degli anni ‘80».
A cavallo del 2040, tra l’altro, «si assiste all’incremento del rapporto fra numero di pensioni e numero di occupati indotto dalla transizione demografica, solo in parte compensato dall’innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento». Anche per questo motivo il dossier mette nel mirino le tante deroghe alla legge Fornero, a cominciare da Quota 100, 102 e 103. E ricorda come gli interventi di riforma del sistema previdenziale adottati a partire dal 2004 «abbiano generato una riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al Pil pari a oltre 60 punti percentuali» di Prodotto interno «cumulati al 2060», quasi un terzo dei quali assicurato proprio dalla “Fornero”.