Una task force di macelli attrezzati a lavorare anche la carne di maiale proveniente dalle zone colpite dalla peste suina, per non rinunciare a metterla sul mercato. È questo il piano a cui vuole lavorare la Regione Lombardia, dopo che la settimana scorsa nel Pavese sono state ritrovate due carcasse di cinghiali infetti, per proteggere dalla catastrofe economica i suoi allevatori e tutta l’industria della trasformazione. Con oltre 2.700 allevamenti e 4,1 milioni di maiali, la Lombardia da sola rappresenta la metà di tutta la suinicoltura italiana. Se la peste suina dovesse prendere piede e si dovesse procedere all’abbattimento dei maiali allevati all’interno delle zone infette, la produzione nazionale di carne e di salumi Dop e Igp sarebbe in ginocchio.
Il piano macelli è stato proposto venerdì 30 giugno, nel corso di una riunione che si è tenuta in Regione e che ha coinvolto le Ats, le associazioni degli allevatori (Cia, Confagricoltura e Coldiretti) e quelle degli industriali (Assica e Assocarni). Come funziona? «Il regolamento europeo – spiega Davide Calderone, direttore di Assica – prevede che anche gli animali provenienti da zone infette possano essere macellati, purché si rispettino due condizioni: la prima è che i maiali devono provenire da allevamenti sottoposti a misure di “biosicurezza rafforzata”. La seconda è che i macelli designati siano in grado di garantire la separazione delle partite». A quel punto, la carne macellata potrà essere commercializzata su tutto il mercato Ue, poiché la peste suina non si trasmette all’uomo. Più problematico resta invece l’export verso i Paesi extra-Ue: «Dipende dagli accordi con i singoli mercati – dice Calderone – Giappone, Cina e Taiwan, per esempio, già oggi non l’accettano».
In Emilia Romagna, che ospita il 12% dei maiali allevati in Italia e ne macella il 35%, con grande spirito di previdenza la Regione sta già lavorando da tempo a un piano simile. In Lombardia, dove la peste suina è già arrivata, ora diventa una corsa contro il tempo. Il primo punto è rafforzare la biosicurezza degli allevamenti: «Sono necessarie molte misure – spiega Paolo Maccazzola, presidente di Cia Lombardia, che ieri era al tavolo della Regione – dal disinfettare gli automezzi che entrano negli allevamenti fino al limitare l’accesso ai rappresentanti delle case produttrici di fitofarmaci». Il guaio è che si tratta di interventi costosi, per questo finora li hanno applicati in pochi.
Una volta messi in sicurezza gli allevamenti, occorrerà incassare l’ok dai macelli in grado di garantire il doppio binario produttivo. La Regione Lombardia ha poi promesso di intensificare le misure di controllo ricorrendo ai droni e all’esercito, ha organizzato le squadre di cacciatori per procedere agli abbattimenti dei cinghiali selvatici sotto la guida delle Ats e ha messo a disposizione fondi per aumentare le recinzioni e isolare le aree dove sono state ritrovate le carcasse infette.
Tra gli allevatori, però, la preoccupazione resta alta: «L’emergenza è stata trascurata – dice Maccazzola – finora è stato fatto troppo poco, soprattutto per quanto riguarda l’abbattimento dei cinghiali selvatici, responsabili della trasmissione della malattia. Oltre tutto sono anni che gli ungulati selvatici devastano i campi coltivati, eppure i piani di contenimento vanno a rilento».
Lo stesso commissario straordinario per la peste suina, Vincenzo Caputo, nominato ormai quattro mesi fa, durante l’audizione parlamentare di mercoledì scorso ha dovuto ammettere che la popolazione nazionale di cinghiali non solo non è diminuita, ma è addirittura aumentata. «Questo piano macelli invece – aggiunge il presidente di Cia Lombardia – potrebbe evitare una catastrofe dal punto di vista economico». Anche perché la Regione non avrebbe nemmeno i fondi necessari per indennizzare tutti gli allevamenti che, in caso contrario, dovrebbero procedere agli abbattimenti
Il Sole 24 Ore
1 luglio 2023
Questo articolo è pubblicato nella Sezione Rassegna Stampa