di Stefano Simonetti, Il Sole 24 Ore sanità. Nell’ordinamento giuridico e contrattuale della Sanità esiste da sempre una suggestione quasi cabalistica dei “numeri”, intesi come riferimenti normativi assurti a icone giuridiche e organizzative, spesso con riflessi non del tutto positivi. Per anni il riferimento principe è stato “15-septies”, dalla norma legislativa del decreto 502 del 1992 che consente alle aziende sanitarie di assumere dirigenti senza concorso. Da poco – circa cinque anni – il numero simbolo credo sia diventato “23, comma 2” per le conseguenze – sempre negative – che ha generato nel Servizio sanitario nazionale, sia a livello contrattuale che gestionale. Si tratta dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, il cosiddetto “decreto Madia”, delegato dalla legge 124/2015, il quale, in sintesi, congela il salario accessorio ai valori del 2016. Sfuggono a questa tagliola solo gli incrementi contrattuali successivamente disposti e alcuni altri emolumenti che si dirà.
Poche norme legislative sul Pubblico impiego hanno costituito un problema interpretativo come quella di cui si sta trattando. Numerosissimi pareri della Corte dei Conti e ben tre norme di legge integrative non sono stati sufficienti a dirimere tutte le perplessità applicative che si cercherà qui di analizzare. Riguardo all’ormai mitico art. 23, chi scrive aveva inizialmente tentato di dare una interpretazione logico-sistematica ispirata anche al buon senso, ritenendolo una norma transitoria valevole solo per la determinazione del fondo 2017. Il fatto che esista un congelamento al valore 2016 è certamente vero ma lo stesso comma 2 inizia così: “nelle more di quanto previsto dal comma 1” il quale, a sua volta, rinvia alla, allora, imminente contrattazione collettiva. Pertanto, dalla lettura coordinata dei due commi – scritti comunque molto male – si dovrebbe dedurre che il congelamento valeva per il solo 2017 e che nulla avrebbe impedito ai contratti di tornare sugli incrementi, come effettivamente è stato fatto. Con quale attendibilità si può considerare strutturale una disposizione che, iniziando con le parole “nelle more di quanto previsto”, dovrebbe essere logicamente preordinata a durare solo fino all’evento indicato, cioè all’avvenuta armonizzazione? E inoltre non si può ignorare che l’art. 23 è collocato nel Capo IX delle disposizioni transitorie e finali del decreto 75 ad avvalorare la sua valenza congiunturale e non strutturale. Non è, infine, trascurabile il fatto che la norma prosegue nei commi successive parlando di “sperimentazione”.
Sono ancora convinto di ciò, anche alla luce del disallineamento delle relazioni allegate al decreto 75. Infatti, nella Relazione illustrativa al decreto, in riferimento all’art. 23 si afferma che “… al fine di consentire l’armonizzazione dei trattamenti economici accessori del personale del Comparto e dell’Area dirigenziale delle Funzioni Centrali”. Mentre nella Relazione tecnica si legge “… al fine di consentire la progressiva armonizzazione dei trattamenti economici accessori del personale delle amministrazioni pubbliche”. Orbene, il testo dell’art. 23 sembra dare ragione alla seconda relazione, nel senso che l’armonizzazione riguarda tutte le amministrazioni pubbliche, ma la circostanza che due importanti documenti ufficiali a corredo del decreto siano così discordanti è un segnale di confusione e, soprattutto, rivelano che la norma è stata “infilata” nel testo all’ultimo momento e che non ha niente a che vedere con le deleghe che doveva correttamente realizzare il decreto legislativo. L’art. 12 delle Preleggi ci insegna che nell’interpretare una norma ci si deve attenere al “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”. La connessione letterale nel caso che ci occupa testimonia la natura congiunturale mentre per ricostruire la ratio legis si ricorre anche agli atti preparatori che, sempre nel nostro caso, si dimostrano fortemente contraddittori.
Si diceva all’inizio degli importi salariali che non rientrano nel confronto con il 2016 che, oltre agli incrementi disciplinati dai tre vigenti Ccnl del personale della Sanità, risultano essere:
• 35 mln + ulteriori 14 ml ad opera del cosiddetto “comma Gelli” (art. 1, comma 435, della legge n. 205/2017 e s.m.i.)
• gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. 50/2016 (ora art. 45 del d.lgs. 36/2023)
• 25 mln per le certificazioni Inail (art. 1, comma 527 della legge 145/2018)
• le Rar, cioè le risorse aggiuntive regionali che non gravano sui bilanci aziendali
• risorse previste da specifiche leggi delle Regioni a Statuto speciale
• trasferimenti finanziari operati da soggetti privati in esecuzione di specifico contratto
• quota di proventi delle sanzioni amministrative irrogate dal Dipartimento della prevenzione, eccedente le riscossioni del precedente esercizio finanziario
• risorse che affluiscono ai fondi per la contrattazione integrativa solo in modo figurativo in quanto eterofinanziate
• il trattamento accessorio eterofinanziato a valere sulle risorse del Pnrr per progetti di transizione digitale
• le prestazioni aggiuntive previste dall’art. 115 del Ccnl del 19.12.2019, in quanto non rientranti nella definizione di trattamento economico accessorio
• le spese del personale finalizzate al welfare integrativo.
Ovviamente sono fuori del tutto dal tetto i costi del personale derivanti dagli appalti dei medici “a gettone”, strumento di reclutamento che, oltre che essere atipico e immorale, maschera i costi del personale eludendo tutte le norme finanziarie restrittive in materia.
L’impatto opprimente della norma del 2017 non consentiva l’avvio della tornata contrattuale 2019-2021. Ragione per cui la questione è stata oggetto di un importante impegno del Governo nell’ambito del Patto per il lavoro pubblico del 10 marzo 2021, laddove nel paragrafo 1 si dice che il Governo “individuerà le misure legislative utili a valorizzare il ruolo della contrattazione decentrata e, in particolare, al superamento dei limiti di cui all’art. 23, comma 2, del d.Lgs. 75/2017”. Tali misure sono state poi adottate con l’art. 3, comma 2, del DL 80/2021 che, tuttavia, ha stravolto l’impegno rendendolo aleatorio, discrezionale e parziale, visto che la norma affermava “compatibilmente con il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, possono essere superati, secondo criteri e modalità da definire nell’ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro e nei limiti delle risorse finanziarie destinate a tale finalità”; cioè, in altre parole, il “superamento” sarebbe avvenuto nel contesto dei rinnovi contrattuali senza nuovi stanziamenti. Soltanto con il comma 604 dell’art. 1 della legge 234/2021 sono state finalmente stanziate risorse extracontrattuali pari allo 0,22% del monte salari che, infatti, nel recente Ccnl del comparto non sono assoggettate al rispetto dell’art. 23, comma 2.
Colgo l’ennesima occasione per ritornare su una affermazione che ripeto da cinque anni e cioè che nell’art. 23 in questione si rilevano, a mio parere, profili di incostituzionalità. La norma non deve essere “superata” come dicevano il Patto per il lavoro citato e il conseguente comma della legge 234/2021, ma del tutto abolita: se non si capisce questo semplice paradigma è del tutto inutile continuare a parlare del futuro del Servizio sanitario pubblico e della valorizzazione del personale che vi opera.
Riguardo alla questione generale della legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75/2017, ha sempre destato perplessità la circostanza che nessuna Regione abbia mai avviato una impugnazione, neanche da parte di quelle che ricorrono su tutto. È plausibile che le stesse Regioni considerino il 23, comma 2 un comodo scudo per governare la spesa sanitaria che consente, tra l’altro, di avere l’opportunità politica di scaricare le responsabilità dei mancati incrementi sulla legge statale. Ai fini del ricorso alla Corte costituzionale, si può arrivare ad affermare l’incostituzionalità dell’art. 23 per eccesso di delega – al netto di altri aspetti di illegittimità – in quanto è agevole rilevare che nei 21 punti di delega dell’art. 17 della legge 124/201 – e segnatamente nella lettera h) – non c’è traccia del congelamento dei fondi. Un intervento del genere sarebbe stato semmai molto più congeniale all’interno di una legge di bilancio piuttosto che in un decreto delegato di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. Secondo me c’è anche una lesione dell’art. 39 perché, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 178/2015, un tetto perenne e non congiunturale costituisce una limitazione alla libertà sindacale e alla negoziazione. Potrebbe addirittura rilevarsi una lesione degli artt. 32 e 97 perché con forti contrazioni finanziarie non è dato capire come possano essere assicurati “la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa”, indicati dallo stesso art. 23 come finalità della norma.
Un ricorso diretto da parte di una Regione o incidentale da parte di un lavoratore potrebbe avere possibilità di accoglimento visto che è stato escluso dalla stessa Consulta che il tetto possa rientrare nel concetto di “ordinamento civile” e il riferimento al “coordinamento della finanza pubblica” va contestualizzato attentamente. Sono ormai talmente tante le deroghe al tetto 2016 che è giunto il momento di superarlo definitivamente, anche per ricomporre in modo sistematico il quadro normativo ed economico del salario accessorio che attualmente, oltre ad essere troppo caotico, genera profonde disparità di trattamento tra il personale.