«Senza l’intervento del governo rischiamo di trovarci con gli ospedali rinnovati, ma con il sistema territoriale nel caos e sempre più in mano ai privati». Nino Cartabellotta, medico e presidente della Fondazione Gimbe di Bologna, analizza il ritardo sul Pnrr per la sanità.
Che idea si è fatto di questa lentezza?
«Un elemento sottovalutato a cavallo tra i due governi è che il sistema sanitario aveva già delle criticità importanti poi messe a nudo dalla pandemia. La riorganizzazione territoriale, tra gli obiettivi del Pnrr, non può non tenere conto di carenze precedenti, come la quantità di personale e la differenza tra regioni. I primi due anni del Pnrr sono stati responsabilità dello Stato. Ora siamo nella fase di messa a terra dove a seconda delle regioni si verificano dei problemi. Un obiettivo per esempio è la telemedicina per un milione e mezzo di cittadini entro il 2026. Nel 2019 erano 700mila per cui ce la si può fare, ma in Emilia Romagna ne mancano il 17%, in Veneto e Lazio circa il 20%, mentre in Lazio, Calabria e Campania sono molto indietro».
Altre cause del ritardo?
«Sedici regioni si sono affidate a Invitalia per le gare d’appalto, mentre altre vanno per conto loro affrontando delle difficoltà. Poi il governo Meloni ha messo in discussione alcuni punti, come le case di comunità».
Ci sono i soldi per realizzarle, ma non la volontà politica?
«In alcune regioni sono a rischio, in particolare al Sud».
Eppure gran parte dei finanziamenti dovrebbe andare lì…
«Il Pnrr sulla Sanità dà 7 miliardi per la riorganizzazione territoriale, tra cui case di comunità, ospedali di comunità, telemedicina e assistenza domiciliare, e 8 miliardi per la tecnologizzazione degli ospedali».
Sulle case di comunità si è registrata anche la resistenza dei medici di base?
«È uno degli scogli. Si era pensato di farli diventare dipendenti del sistema sanitario o di impiegarli per la metà del tempo in quelle strutture, ma si sono opposti. Al momento le case di comunità sono presenti in una minoranza della città italiane».
Qual è l’alternativa?
«Sono strutture complicate da realizzare per vari motivi ed è possibile che alla fine si permetta ad ogni regione di fare quel che preferisce. Dove le strutture territoriali funzionano continueranno a operare, mentre altrove no».
Un favore ai privati in tante regioni?
«Certamente ci sono molti interessi in gioco, anche perché l’offerta territoriale è sempre più in mano ai privati».
E i 7 miliardi destinati alle case di comunità che fine faranno?
«L’aumento delle materie prime potrebbe portare a spenderli, anche se non si sa con quali risultati e se ci sarà il personale necessario».
E gli 8 miliardi per la tecnologizzazione degli ospedali?
«È più semplice spenderli perché le strutture ci sono e basta infilarci dentro i macchinari».
Dunque gli ospedali verranno rinnovati mentre il territorio resterà nel caos?
«Sostanzialmente sì, a meno di un intervento del governo».
Cosa bisognerebbe fare?
«Investire sul personale territoriale, supportare le regioni in difficoltà, riformare la situazione dei medici di base, altrimenti sarà solo un lifting costoso di un sistema che non si dice di voler privatizzare ma che diventa sempre più privato nei fatti».
Il sistema sanitario pubblico è sempre più costoso e meno efficiente?
«Purtroppo sì, e la prima ragione è che si è disinvestito sul capitale umano».
Si è disinvestito, ma la spesa aumenta di continuo?
«Giusto che aumenti: in Ue siamo i primi tra i Paesi poveri perché gli altri investono di più».
Dovremmo farlo anche noi?
«Certo, almeno 12 miliardi all’anno. Servirebbe un rilancio programmato per arrivarci».
Il sistema va reso anche più efficiente?
«Sì, bisogna puntare innanzitutto sul personale da rimotivare, e poi ci sono sprechi, disorganizzazione, esami e farmaci inutili. E va digitalizzato tutto».
E il privato va regolato?
«Servono nuove regole nazionali, mentre ora ogni regione può mettere il tetto di finanziamento al privato dove vuole. Questo tra l’altro spinge molti medici pagati poco a portarsi i pazienti nel privato».
I medici dovrebbero scegliere se lavorare nel pubblico o nel privato?
«La riforma Bindi lo proponeva, poi non se ne fece nulla. Oggi probabilmente è una divisione superata, ma una regolamentazione di qualche tipo sarebbe utile e dovrebbe passare anche da stipendi adeguati al ruolo professionale».
Fatti cento i problemi della sanità quanto pesa la mancanza di personale?
«Oltre il 50% sia come quantità sia come qualità. Avere professionisti demotivati danneggia tutto il sistema. Molti se ne vanno per i turni esagerati, il calo della sicurezza, la mancanza di tempo per i corsi di aggiornamento e le ferie, la pochezza degli scatti di carriera e le crescenti aggressioni».
Può essere utile un patto Schillaci- Speranza per la Sanità?
«Tutti devono convincersi che il sistema sanitario può essere un fattore di sviluppo: il benessere della popolazione è un investimento e non un costo».
Il governo attuale vanta di aver messo 4 miliardi…
«Sì e speriamo diventino 8 l’anno prossimo per recuperare. Monti tagliò per risanare la finanza pubblica, Letta, Renzi e Gentiloni pure, Speranza ha investito per la pandemia ma senza rilanciare il sistema».
Cosa consiglia a Schillaci?
«Di cercare risorse per il personale, persistere nell’assistenza territoriale trovando un compromesso con i medici di base, e adoperarsi perché le regioni riducano gli sprechi e vengano monitorate in modo efficiente». —
La Stampa