Cinque punti per il Dg Annichiarico. “Stiamo lavorando su cinque pilastri per abbattere le liste d’attesa. Accesso alle prestazioni troppo diverse serve omogeneità. Presa in carico, gli specialisti devono prenotare le prescrizioni. Molta meno tolleranza con chi non si adegua alle indicazioni”
Guidare, non farsi guidare – fuori strada – da una macchina divenuta potentissima come quella della diagnostica. È la visione che il nuovo direttore generale della sanità del Veneto, Massimo Annicchiarico, sta cercando di trasmettere per rimettere il medico di fronte al paziente. E questo è uno dei cinque punti del piano in corso per abbattere le liste d’attesa “una priorità che i cittadini valutano come servizio sanitario”. In campo, un gruppo di lavoro coordinato dal manager e al quale partecipano tutte le aziende sanitarie.
Dottor Annicchiarico, come vi state muovendo?
“Negli anni le Usl hanno creato pesanti disomogeneità nell’accesso alle prestazioni, per quanto legittime. Abbiamo cominciato a lavorare su 5 pilastri fondamentali, a partire dall’appropriatezza. Stando ai dati di Azienda Zero c’è una modalità di accesso alle prescrizioni di diagnostica e specialistica ambulatoriale molto diversa tra territori, che può essere per eccesso o difetto. Noi dobbiamo analizzare queste differenze e prescrivere l’esame giusto nel momento giusto al paziente giusto”.
Quindi siete nella fase della verifica?
“Abbiamo chiesto alle aziende di verificare il livello di appropriatezza attraverso il confronto con i medici di famiglia e gli specialisti per raggruppamento di patologia e secondo le evidenze cliniche. Con un richiamo a un ruolo che la componente clinica deve giocare: l’evoluzione tecnologica è straordinaria, ma ha fatto sì che si invertisse un po’ l’ordine dei fattori. Ora spesso si fa diagnostica strumentale e poi la valutazione clinica. La tecnologia ci ha messo nelle condizioni di fare “l’autopsia in vivo”, ma la diagnosi non si focalizza da sola se non sai cosa vuoi cercare. Prima bisogna fare l’anamnesi, le indagini vanno fatte al momento giusto”.
State dicendo ai medici: prima visitate poi prescrivete?
“Cerchiamo di esercitare la professione attraverso un ritorno all’attività clinica, ascoltando il paziente: un’abitudine un po’ persa. Capisco che ci vuole tempo e può non essere facile, ma parliamo del recupero dell’indirizzo di percorso diagnostico e terapeutico che io come paziente vorrei. Dopodiché ci stanno tutti gli esami che il medico intende prescrivere. Il proliferare di un atteggiamento di salvifica prescrizione a volte è un lasciapassare per un’attività un po’ più semplice, anche perché il cittadino non si comporta più come una volta. Qui entra in gioco la semplificazione dell’accesso alle prestazioni attraverso il secondo pilastro: la presa in carico. È un tema molto controverso tra gli specialisti, ma se io sono il tuo medico ti prescrivo una prestazione e te la prenoto, non faccio una richiesta. Poi ti controllo. La presa in carico è tanto più fondamentale quanto più il paziente è complesso. Se si seguisse questo percorso i tempi sarebbero definibili già attraverso agende interne senza inviare al Cup”.
Così abbattereste le liste d’attesa?
“Non solo. Se comunico io al cittadino l’attesa come adeguata, questa diventa parte della relazione medico-paziente. Se gli stessi tempi vengono comunicati al Cup, quella è una costrizione. Ovviamente questo non vale per il medico di base che non ha l’agenda, ma vale per lo specialista. Gli oncologi ormai lo fanno quasi tutti. Stiamo parlando di tutte cose scritte in delibere regionali dal 2011”.
E perché non vengono attuate?
“Perché sono onerose dal punto di vista della relazione e non hanno ancora i connotati che le rappresentano come parte integrante del lavoro. Eppure questo risolverebbe il problema di esami inutili ripetuti. Per questo serve un terzo pilastro, un Cup smart che gestisca la parte non medica in modo rassicurante, attivo, che parli con il clinico. Ci sono aziende che già lo fanno”.
Sembra un cambio culturale difficile da attuare.
“Un terzo dei Cup già lo fa, spesso in back office e il cittadino non lo percepisce. Il quarto pilastro è l’incremento dell’offerta: deve essere proporzionata alla domanda, anche solo a periodi, e va rimodulata sia dal pubblico che dal privato accreditato”.
Crede che questa grande flessibilità sia verosimile?
“Alcune strutture ce l’hanno più di altre. Ma la capacità di un sistema di adattarsi è una questione di organizzazione. E si arriva al quinto pilastro: portare professionalità dove c’è poca offerta. Ad esempio i neurologi a Belluno. Per questo servono convenzioni come abbiamo fatto con Treviso, Padova e Verona per mandare lì specialisti e specializzandi in una logica di rotazione. Le convenzioni vengono fatte in orario di servizio o al di fuori con una remunerazione aggiuntiva: è una scelta delle aziende”.
Queste sono le indicazioni che ha dato?
“E che stiamo esercitando con molta meno tolleranza. È una priorità per i cittadini e quindi dobbiamo mettercela tutta”.
Cosa le fa pensare che lei ce la farà?
“Io sono sicuro di mettercela tutta, ma non di riuscire. Ma ho già qualche segnale. Il 15 partiamo spendendo i primi 15 dei 30 milioni che il Milleproroghe consente di prendere dal fondo sanitario indistinto per le liste d’attesa. Abbiamo chiesto alle aziende un piano mirato sulle priorità D, le prestazioni differibili che sono le più rappresentate nel galleggiamento: l’obiettivo è arrivare a zero per fine anno. I soldi servono anche per pagare prestazioni interne aggiuntive e per contratti a tempo per incrementare l’offerta. La prima fase del piano finisce il 30 settembre e a quel punto valuteremo i risultati: se positivi daremo anche la seconda tranche. Non sappiamo ancora quello che faremo con chi spende e basta” (sorride ndr).
Crede che questo riuscirà a saldare lo scollamento tra la sanità d’eccellenza e quella percepita dal cittadino?
“Un’azienda che fa cose come un trapianto a cuore fermo trascina tutti verso l’alto. Ma accessibilità e qualità sono due cose diverse. Anche se la prima misura la seconda, non viene percepita così da tutto il sistema. Però queste due anime possono coesistere e il lavoro di composizione è quello che mi viene chiesto”.
Simonetta Zanetti – Il Mattino di Padova