Nella loro contraddittorietà i segnali sono molto chiari: Il ministro per la Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo ha aperto al rinnovo dei contratti del pubblico impiego per il triennio 2022-2024, ma senza dire dove troverà i dieci e più miliardi di euro necessari. Se poi si cerca un’ulteriore conferma, basta leggere la Nadef (la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza, che è un po’ la bussola della politica economica e fiscale del governo) che non riporta alcuna cifra al capitolo rinnovo dei contratti pubblici e al tempo stesso prevede un’inflazione al 7% per l’anno in corso e al 5,5% per quello prossimo. Fatte salve le rassicurazioni di facciata, il messaggio lanciato ai dipendenti pubblici ricorda la vecchia battuta degli impresari d’avanspettacolo: Bambole, non c’è una lira.
Dopo un blocco più che decennale dei livelli retributivi e un contratto (quello del triennio 2019-2021) rinnovato in articulo mortis solo pochi mesi fa, si fa strada lo spettro di un nuovo rinvio alle calende greche. Scelta che sarebbe già esiziale anche tenendo conto solo dell’inflazione stimata, che già ha fatto sentire i suoi effetti dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina ed è destinata a restare ben ancora a lungo al di sopra del 2%, soglia oltre la quale la Bce fa scattare il campanello d’allarme. L’aumento del 4%, concesso a contratto scaduto e dopo un periodo di latenza quasi infinito, è stato già bello che annullato dall’inflazione, che peraltro continua la sua opera, scavando nella carne viva.
Rinviare il rinnovo del contratto a tempi migliori avrebbe però un altro e forse ancor più grave significato, dimostrerebbe che tutte le dichiarazioni fatte finora sulla necessità di trasformare la macchina dello stato, da corpaccione burocratico ad efficiente struttura di servizi per il cittadino, sono state soltanto aria fritta. In poco più di tre lustri sono state varate ben due riforme complessive della pubblica amministrazione, quelle firmate dal ministro Renato Brunetta (2009) e dalla ministra Marianna Madia (2015). Obiettivi dichiarati di entrambe erano il recupero delle produttività e la creazione di un nuovo sistema di valutazione e incentivazione per i pubblici dipendenti. Alla luce dei fatti gli obiettivi si possono dichiarare tutti e due mancati e non per l’opposizione di quelli che Brunetta chiamava “fannulloni”, ma perché le due riforme, pensate proprio durante il lungo blocco dei contratti erano studiate per essere, come dire, “a costo zero”. Non a caso nel sistema ideato da Brunetta era previsto che ai premi di produttività dovesse andare oltre il 50% dei fondi che finanziano il trattamento accessorio, cioè quei soldi che servono per finanziare il lavoro notturno, i turni e altre indennità, come quelle di rischio o di disagio. L’idea era quindi di togliere da una voce per finanziarne un’altra, l’importante era che alla fine il conto tornasse in pari. Non un grande incentivo, diciamolo! Non poteva funzionare ed infatti non ha funzionato.
Il fatto è che la vera differenza tra pubblico e privato non è la presunta maggiore predisposizione al lavoro dei dipendenti del secondo settore, ma la scarsa attenzione dei gestori del primo alla qualità del servizio e alle esigenze dell’utente. Lo Stato, insomma, per usare le definizioni del Mercato, non ha la stessa attenzione al prodotto e alla soddisfazione del cliente che hanno gli imprenditori privati e la cartina di tornasole che la forniscono proprio i contratti di lavoro. Nessun settore privato, infatti, ha dovuto sopportare blocchi contrattuali durati decenni, il che ha significato che pur nelle more di una crisi economica che dura almeno dal 2007 la dinamica delle relazioni industriali non si è mai interrotta e così le parti hanno potuto confrontarsi e trovare intese per gestire la complessità dei processi produttivi in grande trasformazione.
Un esempio lo forniscono le banche, che venti anni fa avevano negli sportelli territoriali il loro centro di gravità e ora sulla spinta dell’home banking hanno trasformato agenzie e filiali in centri di servizi e consulenza, tutte novità passate attraverso un confronto sindacale che ha accompagnato e gestito la profonda trasformazione del lavoro degli addetti. Una spinta al cambiamento così forte che il principale istituto bancario italiano, Intesa San Paolo, ha rotto addirittura l’unità dell’Abi per proporre ai propri dipendenti un nuovo modello ancora più innovativo, con settimana corta di 4 giorni, orario di lavoro di 9 ore e 120 giorni l’anno di smart working. Un altro esempio è il contratto 2023-2026 siglato dai sindacati con Stellantis-CNHI-Iveco-Ferrari (quello che era l’universo Fiat), un accordo che nella componente economica non prevede solo un aumento delle retribuzioni dell’11% nei primi due anni, ma una nuova articolazione fra componente strutturale e congiunturale e un’ulteriore variabile innovativa legata alla strategia di profit sharing annuale dell’azienda, oltre che altri benefit in beni e servizi welfare per i dipendenti.
Nel pubblico, invece, i lunghi anni di latenza contrattuale hanno prodotto più ulteriori procedure (e in ultima analisi altra burocrazia) che processi innovativi, mentre si è mantenuto enorme il ritardo nella trasformazione digitale e la valorizzazione professionale delle competenze del personale è restata per lo più una chimera. Si salvano, ovviamente alcune eccellenze, come per esempio alcune strutture sanitarie dove la motivazione nel perseguimento di alti standard è dovuta anche alla competizione per i fondi di ricerca nazionali o europei, oppure nel caso delle agenzie fiscali fa premio la loro particolare autonomia, non solo gestionale ma anche economica.
Nel resto delle amministrazioni, anche in quelle in cui, come nel comparto Giustizia, per definizione sono allocate competenze di altissimo livello, il “processo produttivo” è fermo al secolo scorso. Chi ha stabilito, per esempio, che le udienze si debbano tenere per forza solo al mattino, non si potrebbero tenere aperti i tribunali anche nel pomeriggio? Quando le Poste erano un ente pubblico chi voleva spedire una raccomandata dopo le 13.30 doveva aspettare il giorno dopo, ora che Poste è una società quotata gli uffici sono aperti dalla mattina alla sera, e i dipendenti, almeno quelli che non hanno ancora raggiunto l’età pensionabile, sono sempre gli stessi. Se manca l’efficienza, quindi, di chi è la colpa? Del dipendente fannullone o del datore di lavoro, lo Stato, che si disinteressa del suo “prodotto”? Chi è convinto che rinviare la discussione dei contratti sia una semplice questione di contabilità pubblica dovrebbe prima provare a rispondere a questa semplice domanda.