AFFARI&FINANZA – Michele Zaccardi. «I l violento rialzo dei prezzi sta seriamente condizionando il mercato: tutte le aziende del nostro settore sono in perdita». La concisione con cui Lorenzo Mattioli, presidente di Anir Confindustria, descrive la situazione in cui versano le imprese della ristorazione collettiva si riflette nell’apparente semplicità del problema: l’inflazione ha fatto esplodere i costi mentre i prezzi per la fornitura dei servizi sono bloccati. Al contrario di altri settori che lavorano per la Pubblica amministrazione, come quello delle costruzioni, i capitolati di appalto non prevedono la possibilità di rivedere i tariffari. E per imprese che realizzano più della metà del loro giro d’affari, 3,5 miliardi di euro su poco più di 6, fornendo pasti a scuole, caserme e ospedali l’assenza di un adeguamento automatico pesa come un macigno.
«Questo è un settore che rischia il default – prosegue Mattioli – un tessuto imprenditoriale importantissimo fatto da centinaia di aziende che erogano 4,5 milioni di pasti al giorno, 1 miliardo all’anno. Se non si interviene si rischia una seria emergenza sociale». Anche perché le aziende non possono ridurre o sospendere l’attività per non incorrere nel reato di interruzione di pubblico servizio. La conseguenza è che, da mesi, sono costrette a lavorare in perdita. «Nell’ultimo anno, il costo dei prodotti alimentari che utilizziamo è aumentato del 30%. Anche in questi giorni sono arrivate richieste per ritoccare all’insù i listini» spiega Massimo Piacenti, vicepresidente di Anir con delega alle relazioni istituzionali. «Molte imprese stanno chiudendo i bilanci in sofferenza. Le più grandi stanno erodendo in maniera significativa il patrimonio netto, le più piccole sono in grave difficoltà. Molte gettano la spugna o sono in procinto di vendere».
Certo, le imprese più solide riescono a reggere. «Siamo riusciti a chiudere i conti in utile, ma dall’anno scorso ci siamo trovati con incrementi del 40% per i generi alimentari, ben oltre l’inflazione generale, senza possibilità di ritoccare i prezzi » ricorda Tommaso Putìn, vicepresidente di Serenissima Ristorazione. «Il nostro è un settore labour intensive, in azienda abbiamo più di 10mila dipendenti, con una struttura dei costi molto rigida: il lavoro, che è una voce incomprimibile, incide per il 40%, mentre un altro 40% è dato dai generi alimentari».
A snocciolare i numeri su quante imprese non si sono viste riconoscere un adeguamento automatico è Piacenti. «Circa il 75% dei contratti in essere non è coperto da una clausola obbligatoria di revisione deiprezzi. Sono accordi siglati sotto l’egida del Codice degli appalti del 2016 che rimette l’adeguamento alla discrezionalità delle stazioni appaltanti ». E ovviamente non tutte hanno le risorse per tamponare l’emergenza. Persino la revisione fatta dal Comune di Roma, tra gli esempi virtuosi, ha coperto soltanto il 40% dei maggiori costi. «Siamo all’aspirina per una malattia molto grave» commenta il vicepresidente di Anir.
Una soluzione poteva venire dalla riforma del Codice degli appalti, ma le speranze delle imprese sono andate deluse. Intanto perché i contrattiin essere non vengono toccati dalla riforma, poi perché si prevede che la revisione dei prezzi sia riconosciuta solo in presenza di aumenti superiori al 5%. «Una sorta di franchigia – spiega Piacenti – e sulla parte eccedente viene riconosciuto l’80%. Per esempio con l’inflazione al 10% alle aziende verrebbero riconosciuti solo 4 punti. In un settore che, prima del Covid, aveva un Ebitda del 5%, che significa un utile netto intorno a zero virgola, questa soluzione è inadeguata. Se poi l’inflazione dovesse tornare a un fisiologico 2%, la revisione non scatterebbe».
Senza contare che i prezzi dei generi alimentari corrono molto più dell’indice generale. A maggio l’inflazione è cresciuta del 7,6%, mentre gli alimentari lavorati del 13,4% e quelli non lavorati dell’8,9%. Un trend che, con l’avvicinarsi dell’estate, potrebbe persino peggiorare. «Oltre alla disgrazia in Romagna, dove si concentra una parte molto rilevante della produzione ortofrutticola – puntualizza Piacenti – c’è anche la minaccia della siccità che incombe: ciò determinerà ulteriori problemi per il reperimento dei prodotti della filiera agroalimentare, con ripercussioni sui prezzi». Per questo Anir chiede al governo interventi immediati. «Nel nostro comparto i contratti hanno una durata minima compresa tra 3 e 5 anni: se non si può mettere mano a questo la situazione diventa catastrofica», dice Mattioli. «Credo ci siano delle buone possibilità per prevedere, prima dell’entrata in vigore della riforma, un periodo transitorio in deroga al codice per venire incontro al settore: a noi basterebbe un adeguamento all’indice Istat». La proposta di Anir è di rimpinguare con circa 200 milioni di euro il fondo, istituito durante il Covid, destinato alla ristorazione collettiva. Risorse a cui gli enti potrebbero attingere per riconoscere gli aumenti. «Abbiamo avuto un’interlocuzione molto attenta da parte del governo, ma ora servono risposteconcrete».