Repubblica. Le spese aumentano, le entrate rallentano. E lo squilibrio ricade sui conti dell’Inps, messi sotto pressione. Eccolo il cortocircuito che sta generando l’inflazione. Perché le pensioni sono state rivalutate, seppure non tutte in modo pieno, facendo lievitare la spesa prevista per il 2023 di 22 miliardi. I salari, invece, sono rimasti indietro: gli ultimi dati dell’Istat dicono che il divario tra i prezzi e le retribuzioni è ancora sopra i sette punti percentuali nella media del primo trimestre. Stipendi al palo e quindi meno contributi versati.
La sintesi è quello che il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha definito un “gap”, un divario. Di fatto un buco di 22 miliardi nelle casse dell’Istituto. La questione che si apre va oltre la fotografia di questa dinamica. Per quanto tempo è sostenibile il dislivello tra una spesa pensionistica che cresce e un afflusso di contributi che non tiene il passo? Non a caso Tridico,nel corso del suo intervento a un convegno sulle diseguaglianze salariali, ha sottolineato che «così si continua ad accumulare un’insostenibilità che è molto preoccupante». E se l’inflazione ha fatto daacceleratore, la domanda si allarga: quando si riassorbirà questo gap considerando che i prezzi sono tornati a risalire ad aprile, registrando un aumento dello 0,5% su base mensile e dell’8,3% sull’anno, dal 7,6% del mese precedente?
I numeri spiegano come si è arrivati al dislivello. Partiamo dalle pensioni. Dal primo gennaio di quest’anno, quelle fino a 2.102 euro lordi mensili (fino a quattro volte il minimo) sono state adeguate al 100% all’inflazione dell’anno scorso, con un incremento del 7,3%. Quelle con importo superiore, invece, sono state rivalutate secondo le fasce stabilite con l’ultima legge di bilancio. Nella misura dell’85% per i trattamenti tra 4 e 5 volte il minimo, scendendo poi al 53% tra 5 e 6 volte, al 47% tra 6 e 8 volte, al 37% tra 8 e 10 volte, infine al 32% per quelli superiori a 10 volte, sempre rispetto al minimo. Sopra i 2.102 euro c’è stata una minore rivalutazione all’inflazione, per via delle decisioni assunte dal governo Meloni.
Nonostante il risparmio, però, la spesa resta ingente e, come si diceva, caricata di 22 miliardi aggiuntivi. Sull’altro fronte, cioè i salari, ladinamica è decisamente diversa. L’Istat ha sottolineato come nel primo trimestre gli incrementi a regime dei rinnovi nel pubblico, relativi al triennio 2019-2021, hanno accelerato la crescita delle retribuzioni contrattuali, che però resta contenuta. Aggiungendo che «la modesta dinamica retributiva» nell’industria, dove la quasi totalità dei contratti è in vigore, si associa alla «limitata entità degli incrementi fissati dai rinnovi siglati tra il 2020 e il 2021», quando le aspettative inflazionistiche erano ancora molto contenute.
I servizi vanno ancora peggio: la crescita salariale contenuta è legata al fatto che più della metà dei dipendenti è in attesa del rinnovo del contratto. Soprattutto, nella media del primo trimestre, quando il passo dell’inflazione ha rallentato, la differenza tra la dinamica dell’inflazione e quella delle retribuzioni contrattuali è rimasta superiore ai sette punti percentuali. Uno scenario preoccupante ora che l’inflazione è tornata a crescere.