Il Messaggero. La pandemia ha dato il colpo di grazia, ma la situazione era già drammatica prima. Tra medici e infermieri degli ospedali stanno crescendo stanchezza, scoraggiamento, stress, nervosismo. Un camice bianco su due è affetto dalla sindrome da burnout, che significa esaurimento psico-fisico delle forze e perdita di lucidità. Questo ha un effetto inevitabile anche sull’assistenza ai pazienti, perché un medico o un infermiere in crisi, inevitabilmente, commette più errori. Secondo uno studio commissionato da Fadoi sono almeno centomila all’anno. Andiamo per ordine: Fadoi è la Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti, una società scientifica che in questi giorni ha organizzato il congresso nazionale a Milano (si conclude oggi). Ha realizzato una ricerca su un campione molto ampio di camici bianchi.
LO STUDIO
Ciò che emerge è molto preoccupante: «Il quadro è devastante – spiegano a Fadoi -. I camici bianchi sono depressi, stressati e in perenne carenza di sonno per orari di lavoro che vanno ben oltre il lecito, impossibili da gestire. Il tutto aggravato da mancanza di riconoscimento del valore di quanto con competenza professionale si fa, un numero di pazienti per medici e posti letto che rende quasi impossibile instaurare un rapporto empatico con i pazienti e la burocrazia che rende tutto ancora più difficile. C’è questo e di più in quello che in gergo tecnico si definisce “sindrome da burnout”, quell’insieme di sintomi determinati da uno stato di stress permanente con il quale devono vivere il proprio lavoro il 52 per cento dei medici e il 45 per cento degli infermieri che prestano la loro opera nei reparti ospedalieri di medicina interna». In altri termini ci sono 56mila medici e 125.500 infermieri che si trovano in corsia pur affrontando la sindrome da burnout.
Ma dal punto di vista del paziente questo cosa significa? Inevitabilmente si alza la percentuale degli errori medici. Fadoi ha incrociato i numeri con gli studi realizzati da Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota, arrivando a concludere che quasi 100mila errori medici in corsia sono determinati da questa situazione di disagio di medici e infermieri. E come ci siamo arrivati? Spiega Dario Manfellotto, presidente della Fondazione Fadoi, del Dipartimento Medicina interna dell’Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina Gemelli di Roma: «Vent’anni fa non avremmo avuto questi dati. Contano tre variabili. La prima: l’invecchiamento del personale medico e infermieristico, provato da tanti anni di professione. Aggiungiamo i tre anni del Covid, che sono stati devastanti. Dal punto di vista emotivo, organizzativo e personale quell’esperienza ha inciso in modo drammatico: si è lavorato senza soluzione di continuità, prendendosi dei rischi, trascurando le famiglie.
Infine, oggi il sistema sanitario è diverso da quello di vent’anni fa. Prima avevamo pazienti con un carico sanitario minore, oggi spesso hai ricoverati che necessitano di un’assistenza continua». Si è alzata, per fortuna, l’età media della popolazione, siamo più anziani e moriamo più tardi, ma significa anche avere più persone fragili che necessitano di ricovero. «Purtroppo – racconta Manfellotto – avere tanto personale in burnout incide inevitabilmente anche sugli errori. Per fortuna, c’è anche un altro dato che emerge: il personale è ancora motivato. Dice: “se ci lasciate fare il nostro lavoro, possiamo dare la migliore assistenza possibile”. Dalla ricerca emerge che l’84 per cento dei camici bianchi crede di influenzare positivamente la vita delle altre persone con il proprio lavoro e nel 73 per cento dei casi si sente “rallegrata dopo aver lavorato con i propri pazienti”. Sarebbe importante anche liberare i camici bianchi da un pesante fardello di procedure burocratiche».
Altra zona oscura, l’aumento delle aggressioni ai danni di medici e infermieri, specialmente di chi lavora nei pronto soccorso (quattro episodi ogni giorno, secondo gli ultimi dati), mentre si è ormai affievolito il ruolo del filtro dei medici di base. Osserva Francesco Dentali, presidente di Fadoi: questa situazione mette a rischio anche la salute dei camici bianchi. Dice: «L’influenza del burnout sulle malattie professionali è un fatto oramai acclarato dalla letteratura scientifica. Il rischio di infarto del miocardio e di altri eventi avversi coronarici è infatti circa due volte e mezzo superiore in chi è in burnout, mentre le minacce di aborto vanno dal 20 per cento quando l’orario di lavoro non supera le 40 ore settimanali salendo via via al 35 per cento quando si arriva a farne 70. Evento sempre meno raro con il cronico sottodimensionamento delle piante organiche degli ospedali».