Abbiamo attraversato gli anni di pandemia e le relative misure con un senso di inevitabilità, ora non ne parliamo più. Rischiamo, per stanchezza, di trasformare la fine del Tempo dell’Emergenza (che abbiamo odiato) nell’inizio del Tempo della Superstizione
di Paolo Giordano, Il Corriere della Sera. Per un momento, venerdì pomeriggio, due agenzie sono apparse una di seguito all’altra in testa a Corriere.it: l’ex premier Giuseppe Conte aggredito a Massa da un esponente no vax, e l’Oms che dichiarava la fine dell’emergenza sanitaria legata al Covid. Ho fatto uno screenshot per appuntarmi quella coincidenza. Mi pareva la sintesi di qualcosa.
Più che dichiarare la fine dell’emergenza, l’Oms ha vidimato un passaggio che tutti noi abbiamo già compiuto da tempo. L’annuncio formale, che pure ha una sua rilevanza (quanto meno per apporre una data di fine nelle pagine Wikipedia), ci coglie in una fase di insofferenza verso tutto ciò che ha un’attinenza anche solo nominale con il Covid. È strano, o forse no: il Covid è l’ultima epidemia di rilevanza davvero mondiale comparsa dopo l’Aids, e ha causato, ci dice l’Oms, venti milioni di morti in un tempo alquanto breve, ma a noi non va più di discuterne. Io stesso ne scrivo a fatica, come controvento. La scrittura è sempre sensibile alla direzione dei venti. A parlare ancora di Covid, oggi, sono rimasti i negazionisti del Covid. A parlare di mascherine, i renitenti alle mascherine. A parlare di lockdown, i critici irriducibili dei lockdown, e a parlare di vaccini i no vax.
Noi altri, la maggioranza, che abbiamo attraversato gli anni di pandemia e le relative misure — certo, spesso non adeguate o eccessive o controverse — con un senso di inevitabilità e di indulgenza acuita verso gli errori altrui, non ne parliamo più.Questo è un pericolo. Lasciare scoperto il fronte della narrazione su quanto è accaduto, significa offrire il terreno a chi vuole avvelenarlo di sospetto e superstizione. Rischiamo, per stanchezza, di trasformare la fine del Tempo dell’Emergenza (che abbiamo odiato) nell’inizio del Tempo della Superstizione. Non dovremmo dimenticarcelo: siamo un Paese particolarmente incline alla superstizione, all’interno di un mondo sempre più superstizioso.
Dirò anch’io una cosa, se non proprio superstiziosa, quanto meno non basata su alcun dato o evidenza scientifica: nell’ultimo anno molte persone intorno a me si sono ammalate. Persone di età diverse con patologie diverse, nemmeno paragonabili. Quindi quella che riferisco è un’impressione personale, aneddotica, di nessuna rilevanza. Se lo faccio, è solo per misurare le oscillazioni mentali in cui mi ha coinvolto. So anche che le ragioni possibili di un’anomalia del genere sono svariate: anagrafiche, casuali, o legate unicamente alla mia suggestione (ovvero non esiste alcuna anomalia, le persone si ammalano e basta). Eppure, non posso negare che l’accumulo di diagnosi vicine mi abbia prodotto una sensazione di stranezza e abbia smosso in me qualche zolla di pensiero magico. E che non riesco a evitare di mettere questo exploit di patologie in relazione agli anni appena trascorsi. So di non essere l’unico immerso in simili illazioni, perciò ne parlo. C’è una percezione diffusa di trovarci in uno strascico di malattia. Quello che mi colpisce e preoccupa, però, è che confrontandomi con altri, ciò che salta fuori come spiegazione è quasi sempre il sospetto verso i vaccini. Mai quello verso il Covid. Cioè: siamo più disposti ad ammettere legami fra ciò che ci ha curato e l’ipotetica insorgenza di problemi sconosciuti, di quanto siamo disposti ad ammettere che un virus assolutamente nuovo per la specie umana, il cui grado di novità abbiamo ormai sperimentato tutti o quasi sul nostro stesso organismo, possa avere conseguenze a medio o lungo termine che ancora non sappiamo. Nemmeno i medici sono esenti da queste speculazioni. Possibile che l’Oms ci dica venti milioni di morti, che noi abbiamo visto tutto quel che abbiamo visto, perso tutte le persone che abbiamo perso, e che contemporaneamente, ancora oggi, non prendiamo il Covid davvero sul serio? Possibile.
L’emergenza sanitaria sarebbe finita prima o poi, con o senza i lockdown, con o senza le mascherine, con o senza i vaccini. Non è mai esistita un’ipotesi ragionevole di «fine pandemia mai», sebbene in alcuni tratti siamo arrivati a temerlo. Per fortuna non avremo una storia alternativa a confermarlo, ma ci conviene, per il nostro futuro benessere, convincerci nel profondo che sarebbe finita con numeri ancora peggiori di quelli che sappiamo (e che sono tragici).
Da marzo 2020 in poi sono state spese molte parole superflue su quale eredità morale la pandemia ci avrebbe lasciato. Cerchiamo una lezione morale da tutto e su tutto, chissà perché. La mia personale risposta «morale» è poco incoraggiante: ha lasciato un mondo più diviso, confuso, incattivito e disuguale. Un mondo sfranto, che necessita anzitutto di medicamento sociale e politico, e che se non lo riceverà, cercherà soccorso nell’irrazionalità.
Ma risposte come questa mia non hanno, a ben vedere, alcun valore. C’è così tanto di più pratico e rilevante di cui dovremmo parlare. Dei reparti di medicina di urgenza prostrati dalla fatica, per esempio. Dei giovani che si affacciano ai loro primi lavori e si ritrovano a farli in remoto, soli nelle loro case, avulsi, come se l’emergenza non fosse davvero finita. E, più in generale, della scusa di efficienza che il Covid ha fornito a molte realtà per non ripristinare una piena interazione umana. Ma, soprattutto, del fardello psichico sulla generazione colpita dalla pandemia nel pieno della formazione. I dati che emergono a questo proposito sono ancora frammentari, sporadici, si tratta per lo più di altra evidenza aneddotica. Lo strascico dell’emergenza, soprattutto per i più giovani, è ancora gestito nel chiuso dei reparti, ma prima o poi se ne capirà davvero l’estensione. E dovremo occuparcene. Fino ad allora, possiamo confortarci con il pensiero disgiuntivo, quello in cui le crisi esistono separate, per cui le annunciamo e le decretiamo chiuse, come aprendo e chiudendo dei faldoni. Invece di osare ragionare, parlare e scrivere, una volta tanto, controvento.