I numeri lo confermano con la loro abituale chiarezza: e la rapidità con cui si modificano aggiunge intensità all’allarme. Perché le politiche per la natalità, ammesso che si riesca a costruirle e soprattutto a renderle efficaci, impiegano decenni per determinare effetti economici di un qualche significato. Ma, a scorrere le cifre, il tempo a disposizione per invertire la rotta non sembra molto.
La prima casella a infiammarsi nel bilancio pubblico di un Paese che invecchia è ovviamente quella della previdenza. Il nostro è un sistema a ripartizione, nel quale i contributi versati da chi lavora servono a pagare gli assegni a chi è in pensione. Di qui l’importanza di una platea di occupati ampia, per finanziare il più possibile la previdenza che nella parte non coperta dai contributi finisce inevitabilmente a carico della «fiscalità generale»; o di deficit e debito per usare un linguaggio più concreto.
In teoria, il quadro attuale in Italia da questo punto di vista è il migliore di sempre, perché complice la crescita del Pil a tassi inediti seguita al crollo pandemico il numero di occupati ha superato i 23 milioni e viaggia ora a livelli mai raggiunti da quando, nel 2004, l’Istat ha avviato le rilevazioni mensili. Il problema è che tutto questo non basta.
L’indicatore più diretto per misurare il livello dell’acqua che rischia di soffocare i conti previdenziali italiani è dato dal rapporto fra gli occupati e le pensioni erogate dall’Inps. Nel dato nazionale oggi questo rapporto è a 1,11, dunque per ogni assegno staccato dall’Istituto nazionale della previdenza sociale ci sono 1,11 lavoratori attivi. Non moltissimi.
Ma l’analisi territoriale è in grado di mostrare in modo più dettagliato la questione. Perché è vero che i conti previdenziali non sono federalisti, ma la geografia del confronto con gli occupati indica bene lo stato di una coperta che si lacera.
In 39 Province italiane, il 37% del totale, la soglia (non solo psicologica) della parità fra occupati e pensioni è già stata superata al ribasso, spesso in modo ampio. Questo dato è la regola nel Mezzogiorno dove si concentra l’82% delle Province in questa condizione, affiancate da qualche area del Nord lontano dalle grandi città in particolare in Piemonte (Asti, Alessandria, Vercelli) e nella Liguria (Savona, Imperia) caratterizzata dal tasso record di popolazione anziana. I numeri crollano soprattutto in Calabria, a partire da Reggio e Catanzaro dove i lavoratori attivi sono 67 ogni 100 pensioni mentre a Crotone si arriva a 71 e a Vibo Valentia a 76. Tra le grandi, sotto la parità si incontrano Palermo (84 lavoratori ogni 100 pensioni) e Napoli (96), mentre Roma (131) e Milano (133) sono ancora sopra. Per vedere il quadro più florido occorre invece salire fino a Bolzano, dove gli attivi sono 162 ogni 100 pensioni.
Le cifre sono eloquenti. Ma la realtà è anche peggiore perché tra i lavoratori attivi rientrano anche i professionisti che versano i contributi alle loro Casse. L’ultimo rapporto Adepp (l’associazione degli enti previdenziali privati) ne conta 1,699 milioni, senza dettagliarne la distribuzione provinciale. Escludendo dal calcolo queste persone, che non versano i contributi all’Inps, a livello nazionale i lavoratori attivi ogni 100 pensioni scendono da 111 a 103, e almeno mezza Italia sprofonda sotto la parità. Naturalmente anche le Casse private sono colpite dall’inverno demografico italiano, in misura diversa a seconda dei rami perché nelle professioni più nuove i contributi superano largamente le pensioni mentre in quelle più antiche accade il contrario, fino ai casi limite dei giornalisti che hanno già visto naufragare la loro previdenza finita nel calderone dell’Inps.