Una velocizzazione incredibile della ricerca, «che senza nuocere alla sicurezza dei pazienti ci ha fatto fare in un anno quello che prima facevamo in 10-12». Ma anche una scia di malattie e long Covid, oltre che di screening saltati, che insieme agli stili di vita peggiorati nell’era dei lockdown non fanno prevedere un futuro roseo. È un lascito fatto di luci e ombre quello che ereditiamo dal Covid secondo il professor Alberto Mantovani, immunologo da anni in odore di Nobel e presidente di Fondazione Humanitas per la ricerca.
L’Oms sta per proclamare la fine dell’emergenza pandemica. Cosa ci ha lasciato in eredità il Covid?
«Di negativo c’è il long Covid che rappresenta un carico notevole per chi ne soffre e per il nostro sistema sanitario chiamato a fornire assistenza. Ma a preoccuparmi sono soprattutto il milione e mezzo di mammografie non eseguite, così com’è stato per molti altri screening tumorali e non solo, che rischiano di pesare gravemente in futuro. E non da ultimo il peggioramento degli stili di vita».
Si riferisce ad alimentazione e sedentarietà durante i lockdown?
«Diciamo che questi, pur indispensabili nella prima fase pre-vaccini della pandemia, hanno finito per accentuare cattive abitudini che erano comunque già consolidate. Come dirò alla conferenza su “Alimentazione, scienza e salute” alla Reggia di Venaria, sono molto preoccupato per il futuro del nostro Paese. L’Italia è infatti tra i tre Paesi peggiori d’Europa per numero di bambini obesi o in sovrappeso e altrettanto dicasi per la percentuale di chi fa esercizio fisico. Nei tessuti grassi non ci sono solo le cellule adipose ma anche quelle del nostro sistema immunitario che nell’eccesso di adipe sono completamente disorientate e contribuiscono al rischio di sviluppare cancro e malattie cardiovascolari. Puntiamo sui vaccini per prevenire i tumori, ma un ambiente pulito, sana alimentazione con 5 dosi di frutta e verdura fresche al giorno più 30 minuti di esercizio fisico possono già fare molto. Basti pensare che senza il fumo il cancro al polmone che è oggi un big-killer sarebbe una malattia rara».
E l’eredità positiva del Covid quale sarebbe?
«Ci sono almeno tre risvolti positivi. Il primo è costituito dalla spinta verso la collaborazione della comunità scientifica, mai così aperta e collaborativa. Pensi che sono stato parte di uno studio insieme ad altri 3.600 colleghi. Lo spesso spirito di collaborazione ha fatto rompere vecchi steccati negli ospedali favorendo il lavoro di équipe tra medici e professionisti sanitari. Il secondo aspetto è l’impulso dato alla ricerca che è riuscita a realizzare in un anno cose che prima si facevano in 10-12, come dimostrano i vaccini anti-Covid. Terzo aspetto la tecnologia a Rna messaggero che si è rivelata potente e flessibile. Aprendo alla possibilità di vincere sfide, come quelle alla lotta ad alcuni tumori, nelle quali fino a ieri avevamo fallito».
Dunque alcuni, non tutti i tumori…
«Non aspettiamoci miracoli. Per ora risultati incoraggianti da un punto di vista clinico si sono ottenuti contro un tumore particolare come il melanoma e qualcosa si è visto anche sul cancro del colon retto. Un vaccino universale contro il cancro però non è all’orizzonte. Ci auguriamo di avere vaccini terapeutici mirati contro diversi tipi di tumori, a Rna messaggero o di tipo tradizionale. Non dimentichiamoci dell’importanza dei 2 vaccini preventivi contro il cancro che abbiamo già: quelli contro epatite B e papilloma virus. Ma il futuro è già presente. Proprio martedì l’Ema ha approvato per gli over 65 un vaccino contro il virus respiratorio sinciziale che colpisce soprattutto i più piccoli e gli anziani. Un traguardo che rincorrevamo da mezzo secolo».
Professore, le sue ricerche sugli anticorpi primitivi hanno aiutato a scrivere un nuovo capitolo di storia della medicina. Ci aiuta a capire cosa sono?
«La prima linea di difesa del nostro organismo è quella che chiamiamo dell’immunità innata, che affronta la maggioranza degli incontri con gli agenti patogeni malintenzionati e che è composta da cellule specializzate nel divorare gli aggressori e dotate di antenne in grado poi di neutralizzarli. Le ricerche si sono focalizzate su questa prima linea di difesa. A fianco di queste cellule, esistono anche degli anticorpi primitivi. Molecole che una volta prodotte contro un patogeno svolgono un ruolo di primo piano nel combattere le infezioni, riconoscendo l’intruso, segnalandolo e ostacolandone l’azione. Inoltre la prima linea di difesa coordina la riparazione dei tessuti. Dopo grandi traumi, o come abbiamo imparato anche con le forme gravi di Covid-19, la guerra che il sistema immunitario scatena contro virus, funghi e batteri, come ogni conflitto, lascia dietro sé molti danni».
Qual è il potenziale di queste scoperte per medici e pazienti?
«Già oggi le molecole dell’immunità innata sono usate in clinica come indicatori diagnostici e prognostici di infiammazione. Il loro livello nel sangue permette ad esempio di misurare lo stato infiammatorio e di prevedere l’evoluzione della malattia. Ma serviranno anche per ottenere vaccini più efficaci, perché l’attività dell’immunità innata, messa in moto ad esempio dalle nanoparticelle che veicolano spike, è fondamentale per far partire la produzione di anticorpi contro spike stessa».
Serviranno anche a combattere i tumori?
«Parte di queste molecole sono in fase di sperimentazione per combattere alcuni tipi di cancro. In un paziente oncologico abbiamo una prima linea della nostra difesa immunitaria che si comporta un po’ come se fosse composta da guardiani corrotti. Diciamo che le molecole dell’immunità innata hanno come obiettivo quello di rieducarli a fare il loro dovere. Ma ci sono anche altri campi di ricerca molto attivi».
Quali?
«Ad esempio le ricerche di cui sono stato parte per identificare i modi di comunicare del sistema immunitario che è fondato sul dialogo. Studiando le citochine, ossia le “parole molecolari” del sistema immunitario, possiamo bloccare quelle sbagliate e controllare malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide». PA.RU. —
La Stampa