La Stampa- Quasi nove miliardi l’anno per sette anni, se tutto va bene. Oppure sedici miliardi l’anno per quattro anni nella peggiore delle ipotesi, quella in cui l’Italia non riesca a mettere le briglie all’indebitamento. In ogni caso, circa 60 miliardi di risparmi da realizzare – in un tempo variabile e negoziabile – per non violare il nuovo Patto di Stabilità, sempre che questo rimanga come lo ha presentato la Commissione Ue. Sono quattro ponti sullo Stretto, per scendere fra terra e terra.
Bene o male? Meglio del vecchio impianto di regole, più rigido e “stupido” dell’auspicabile che – a bocce ferme – avrebbe imposto sino a 80 miliardi di tagli annui. Decisamente peggio del vuoto seguito alla Pandemia, della opportuna sospensione dei vincoli che ha favorito spese generose, forse troppo. Comunque vada, il 2024 segnerà la fine della fiera della spesa e del ritorno dei paletti comunitari. Il che impone di essere nuovamente saggi e virtuosi. E, per limitare i danni con l’arte della diplomazia, parecchio più credibili di quanto avvenuto in passato.
Bisogna subito dire che questa è una proposta. Controversa, oltretutto. Deve passare l’esame degli stati membri (il Consiglio Ue) e del Parlamento a dodici stelle. Sarà una battaglia dura, probabilmente uno dei terreni di scontro più accesi dei prossimi mesi, una disputa che l’anno o poco più che manca al rinnovo dell’assemblea di Strasburgo renderà incandescente. Ci saranno modifiche, tutti i Giorgetti d’Europa riscopriranno l’adrenalina delle notti di negoziato infinite. Nulla di nuovo. Se non che si auspica di portare a casa il pacchetto perché possa entrare in vigore col 2024, prospettiva che assomiglia più a una speranza che a una previsione. L’Europa ha la tendenza ad assomigliare a quel gioco in cui partecipano in ventisette e alla fine vincono i tedeschi (attualmente sotto scacco). Con l’aggravante, per noi, che Roma e Berlino sono in dissintonia per ragioni opposte.
Mettiamo comunque che si parta da gennaio, con tre indicazioni: l’obbligo di ridurre il disavanzo di mezzo punto percentuale di Pil l’anno se si è virtuosi; quello di aumentare la correzione se si finisce nel braccio correttivo degli spendaccioni (0,85 per l’Italia); agire nell’arco di quattro anni, estendibili a sette sulla base di un confronto bilaterale con la Commissione. Patto flessibile, finalmente. Ciò non toglie che l’Italia ci arriverà, secondo il “prudente” Def, con un deficit programmato al 4,5% per il 2023 (fuorilegge), al 3,7% nel 2024 (non ci siamo) e al 3% nel 2025 (in linea). In altre parole, al netto della trattativa con un esecutivo Ue che raramente ha piacere di stangare Roma, dovremmo partire in posizione di squilibrio con la correzione minima di 16 miliardi, da trovare in aggiunta a i fondi che il governo Meloni sta cercando per mantenere le promesse elettorali, dagli aiuti alle famiglie al taglio delle tasse, passando per la riforma previdenziale. Nel 2025 la situazione potrebbe rivelarsi analoga. E sarebbero già 30 miliardi aggiuntivi da trovare fra maggiori entrate e minori spese.
Sono numeri importanti, sebbene puramente indicativi. Non è detto che la proposta calibrata da Bruxelles resti com’è e non è detto che entri in vigore “in toto” prima del voto europeo. Se ce la si farà, potrebbe essere che la prossima Commissione Ue, che s’insedierà nell’autunno 2024, abbia per così dire orientamenti diversi dall’attuale, soprattutto se dovessero rivelarsi vere le previsioni di un riassetto complessivo dei pesi politici nella nuova legislatura di Strasburgo. Molti osservatori ritengono che Ursula von der Leyen si giochi le ambizioni di riconferma proprio sulle disposizioni di bilancio e che in queste ore si sia chiesta se le convenga di più dare retta ai tedeschi o ai mediterranei. Una partita a scacchi dalle conseguenze rilevanti per chi non si trova in quadro sostenibile secondo i parametri concordati dai governi europei.
L’Italia resta nel reparto osservati speciali. Debito alto, da anni. Crescita faticosa. Riforme lente. Sistematica necessità di bastone e carota per andare avanti. Meloni, Giorgetti e il resto della squadra di governo dovranno affrontare il negoziato sul Patto, e la sua successiva attuazione, facendo ogni attenzione alla stabilità finanziaria e alla credibilità politica del Paese, due requisiti che nelle ultime ore sono state disputate da alcune banche d’affari internazionali e dalle agenzie di rating. Finita la pandemia, è finito il “liberi tutti”. Questo richiede un approccio poco sovranista e sensibile alle esigenze del grande condominio a dodici stelle, luogo dove tutto si tiene. Bisognerebbe evitare ritardi nel mantenere le promesse e gli impegni (vedi Pnrr) o evitare veti incomprensibili ai più (il Mes). In questo modo si avrebbe l’esito migliore, 64 miliardi circa in sette anni. Al contrario l’obiettivo andrebbe centrato in quattro anni, sarebbe un’intera legislatura con il cordone della borsa bello stretto, cosa sulla carta prevista dai numeri Giorgetti. Turbolenze inevitabili, sull’asse della politica. Che si potrebbero minimizzare in due modi. Cercando una sponda amica dialogante a Bruxelles, pur con spirito virile. E giocando sulla crescita che salverebbe tutto, capra e cavoli compresa. Come dire spesa saggia e riforme. Non perché lo chiede l’Europa, ma perché ne ha bisogno l’Italia.