La Stampa- Quanto a lungo durerà la pazienza della Commissione europea nei confronti del governo Meloni? Negli uffici della direzione preposta alla gestione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) la domanda se la iniziano a porre in molti. Per Giorgia Meloni iniziano a materializzarsi i contorni di un fallimento politico. La Commissione ha già fatto sapere informalmente che l’Italia rischia di perdere un terzo dei fondi a disposizione, a partire da quelli per la sanità. Siamo in grave ritardo sulla definizione dei nuovi standard per le strutture di assistenza territoriale. In gioco ci sono quasi venti miliardi, ossigeno per un settore della pubblica amministrazione alla quale l’ultima legge Finanziaria non ha assegnato nemmeno un euro aggiuntivo. Ed è solo un dettaglio degli svariati problemi attuativi del Pnrr.
Secondo le voci raccolte ai piani alti di Bruxelles i ritardi italiani sono ormai ad ogni livello. Non ci sono solo quelli (cronici) della macchina pubblica nell’utilizzare i fondi: l’ultimo consuntivo ufficiale del Documento di economia e finanza (Def) parla di 4 miliardi su 20 a disposizione. Agli occhi della Commissione i ritardi più gravi sono quelli imputabili alle strutture centrali. I primi risalgono a dicembre, quando l’Italia ha licenziato il pacchetto delle 55 riforme necessarie a ottenere la seconda rata del 2022. Il governo e la Commissione non hanno ancora trovato un’intesa su alcune incongruenze: il finanziamento per l’ammodernamento e la costruzione degli stadi di Firenze e Venezia, gli impegni (mancati) sulla riforma dei porti e delle reti di teleriscaldamento. Si affollano i punti interrogativi su diversi aspetti del pacchetto concorrenza: la legge per il 2022 non è mai stata votata, quella per il 2023 è stata annunciata e rimandata da tre Consigli dei ministri. L’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, laconico, segnalava che «il consiglio ha proseguito l’esame del disegno di legge». «Lo approveremo presto», spiega un’autorevole fonti di governo che chiede di non essere citata. «Quando?», replicano da Bruxelles. Il governo è in ritardo sul pacchetto di riforme (27 fra target e milestone) da presentare entro il 30 giugno: alla scadenza mancano poco più di due mesi. Poi ci sono i ritardi causati dalla riforma delle regole di gestione nazionale del piano, che hanno paralizzato o quasi il lavoro degli uffici di Palazzo Chigi e del ministero del Tesoro. Il decreto trattato a lungo dal ministro degli Affari comunitari Raffaele Fitto langue in Parlamento, e deve essere convertito entro fine mese. La modifica della governance porta con sé ulteriori incognite, anch’esse oggetto della preoccupazione di Paolo Gentiloni. Quanto ci vorrà per approvare i decreti attuativi che spostano i poteri dal Tesoro alla nuova autorità delegata in capo a Fitto? La goccia che rischia di far traboccare il vaso è però un’altra: la ridefinizione della tempistica dell’intero piano da 191 miliardi di euro. La Commissione ha comunicato al governo di attendere un pacchetto complessivo di richieste entro la fine di aprile. In un primo tempo sembrava che Fitto fosse disponibile a rispettare quantomeno la scadenza per la ridefinizione dei programmi di «RePowerEu», ovvero i progetti legati al rafforzamento nell’uso delle energie rinnovabili. Abbiamo a disposizione poco meno di tre miliardi aggiuntivi, nei piani di Fitto dovrebbero diventare molti di più, spostando su quel capitolo alcuni fondi che potrebbero – sempre nelle intenzioni – marciare più velocemente grazie alle grandi aziende pubbliche. Le dichiarazioni in aula di due giorni fa della sottosegretaria alla presidenza Matilde Siracusano hanno smentito anche questo impegno: «il termine del 30 aprile non è perentorio, la scadenza da osservare è il 31 agosto». Insomma, quella che sembrava un’intesa cordiale fra governo e Commissione per dare all’Italia il tempo necessario a rimettere mano al piano – di gran lunga il più impegnativo e ricco dei Ventisette – sta assumendo i contorni di un braccio di ferro.
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