«Nel 2003, la miccia ci esplodeva fra le mani». La pandemia nei ricordi di Gori e Vigevani nelle corsie del Sacco di Milano dopo lo sbarco del primo caso. Storia di una catastrofe scampata: «La sfida vinta a mani nude»
Per la prima volta non serviva spostarsi in America Latina o in Africa: il nemico stava bussando alle porte di casa.
Altro brutto scherzo della globalizzazione: non viaggiano le persone, ma anche le malattie.
Il 17 marzo del 2003 si materializza la prima minaccia globale del XXI secolo. Era un lunedì. Il primo caso sospetto di Sars sbarcò a Milano dalla Cina. Passò da casa. Poi dopo essersi sentito male fu ricoverato in ospedale. In apnea. Polmonite. Insufficienza respiratoria. All’ospedale Sacco di Milano hanno appena assistito alla conferenza stampa dell’Oms, che per la prima volta nella sua storia, ha lanciato un allarme mondiale, raccomandando di rimandare i viaggi provenienti da e per le aree affette.
Andrea Gori (oggi primario di Malattie infettive) è un giovane assistente nei corridoi dell’ospedale Sacco a Milano. Lavorava sulla tubercolosi e sui disastri che l’Hiv stava facendo da una ventina d’anni. Quella notte è stata la prima volta che indossava una tuta ad alto contenimento. Con i percorsi separati. Ora che il Covid è una brutta cartolina arrivata ovunque, conosciamo il senso di certe parole.
C’è chi teme un disastro come quello generato dalla Spagnola. Il 10%, o poco meno, dei contagiati muore. «È stata la prima volta che ci siamo misurati davvero con un’emergenza pandemica. La prima volta che abbiamo aperto uno scambio diretto con gli altri ospedali d’Italia».
Ecco, la prima volta. La Sars è stato questo: un ciclone non annunciato che poteva portarsi via tutto. Ma è stato fermato in tempo. Significa che tutto quello su cui litiga oggi sulle colpe e mancanze della gestione della pandemia Covid lì non c’era nemmeno.
«Quello che ha fatto crollare il castello è stato il volume. Ma avevamo l’impronta, sapevamo cosa fare. Nel 2003, la miccia ci esplodeva fra le mani e non esistevano strumenti diagnostici», spiega Gori. I tamponi che hanno fatto litigare la scienza e costretto fiumi di gente a eterne code fuori dalla farmacie non c’erano proprio. Si lavorava con gli aeroporti. Dal Sacco e dagli altri ospedali si partiva con la valigetta. «L’unico strumento era il termometro. Misuravamo la febbre a chi sbarcava. Poi organizzavamo il tracciamento delle persone».
In quella stanza riunioni si discute soprattutto su chi doveva entrare in contatto con il malato. Significa essere esposti, quarantenati. Si offrivano i medici più anziani. Accettavano la convivenza con le prime bolle. Gian Marco Vigevani, oggi 82 anni, era il capo di quel reparto. «C’era da convivere anche con la psicosi: decisi di instituire un centralino per rispondere alle paure della gente. Era un cellulare a cui rispondevo a turno con i miei medici». Quelli erano anche i giorni della guerra in Iraq. I giornali avevano di che scrivere. «Ricordo che quando finì la guerra l’attenzione anche mediatica si spostò sulla Sars. Non rispondevo a centinaia di chiamate ogni giorno dai giornalisti. Mi dicevano che volevo nascondere qualcosa: semplicemente non avevo tempo».
Vigevani si commuove. Ancora piange a ripensare agli sforzi di quei giorni: «Non esistevano più turni: chiunque voleva essere in corsia. Era lo slancio di sfidare l’ignoto». Il pensiero fisso dei sanitari era anche a Carlo Urbani, il medico che ha scoperto Sars. Che l’ha combattuta a mani nude. Che ha convinto l’Oms a lanciare l’allarme. A imporre quarantene. Ed è morto dimostrando, dopo essere stato contagiato su un volo per Bangkok, che questo virus era una bestia che non accettava compromessi e andava fermato prima che buttasse giù tutto. Il virus lo uccise il 29 marzo del 2003. Offrì il suo tessuto polmonare alla ricerca. Quel giorno è iniziato un percorso lungo che arriva fino a Wuhan. Poi a Codogno. Alla Val Seriana. Al mondo. «La Sars è stato il virus che ha cambiato la percezione collettiva dettando le regole future», conclude Gori. Che poi sarebbero quelle regole su cui, quasi 7 milioni di morti dopo, ancora oggi si dividono, litigando, politici e virologi. Vista 20 anni dopo, quel 17 marzo del 2003, è stata la lunga notte prima di una tempesta solo rimandata nel tempo.