Mutazioni
Le mutazioni che avvengono nella componente spike delle sotto varianti di Omicron BA.1 e BA.2, compromettono la funzione di queste che si traduce, in alcuni casi, in una riduzione ed in altri in un miglioramento. In particolare, le mutazioni che sono tipiche di Omicron e che avvengono in due specifiche regioni dello spike (NTD e RBD, quest’ultimo recettore del virus per entrare nelle cellule), sono in grado di ridurre la capacità neutralizzante esercitata dai monoclonali che sono ampiamente utilizzati in terapia ed in particolare di bamlanivimab e imdevimab, il che pone importanti problemi per il trattamento clinico dei malati COVID-19 (Pastorino C. e altri). Per quanto attiene gli aspetti di epidemiologia generale, si segnala un’interessante pubblicazione redatta in forma di nota tecnica dall’Istituto Superiore di Sanità, sull’impatto della vaccinazione e della pregressa diagnosi sul rischio di infezione di malattia grave associata a SARS-CoV-2, ottenuta analizzando i casi diagnosticati in Italia nel mese di ottobre 2022 (Sacco C. e altri). In particolare, risulta che la massima protezione, sia nei confronti dell’infezione che della malattia grave, si acquisisce con l’immunità ibrida (vaccinazione più pregressa infezione) e che il rischio maggiore di forme gravi di malattia si osserva tra le persone che non sono vaccinate e/o che non hanno avuto una pregressa infezione. In tutti i casi comunque, la riduzione del rischio di malattia grave si associa in maniera significativa alla vaccinazione, specie se questa è stata praticata di recente. Partendo dall’osservazione che i pazienti con malattia infiammatoria intestinale in trattamento con farmaci biologici hanno una minore risposta nei confronti dei vaccini, è stato analizzato il microbiota intestinale, acquisendo sia campioni di feci che di siero di 43 pazienti affetti da questa forma morbosa in trattamento e vaccinati o con vaccino a vettore adenovirale (AstraZeneca) o a mRNA (Pfizer) (Alexander J.L. e altri). Dai risultati emerge chiaramente che esiste un’associazione tra il microbiota intestinale e la produzione di anticorpi dopo la vaccinazione e questa alterata risposta può essere migliorata se i pazienti trattati con farmaci biologici ricevono metaboliti microbici.
Malattie autoimmuni
Vi è un numero crescente di segnalazioni che riguardano l’insorgenza di un certo numero di malattie autoimmuni dopo COVID-19, anche se mancano prove certe di questa relazione, dal momento che sull’argomento non ci sono ancora studi ad elevata numerosità. Per cercare di dare una risposta a questo importante quesito, tra il 1 gennaio 2020 ed il 31 dicembre 2021, sono stati analizzati quasi 4 milioni di soggetti (Chang R. e altri) divisi in casi ed in controlli. La coorte COVID-19 ha mostrato rischi più elevati di insorgenza di diverse malattie auto-immuni, tra le quali si segnalano: l’artrite reumatoide, la spondilite anchilosante, il lupus eritematoso sistemico, il diabete mellito ed altre. Per questo motivo, la conclusione a cui giunge questa ricerca è che COVID-19 verosimilmente si accompagna ad un certo numero di malattie auto-immuni, anche se, per ammissione degli stessi estensori della ricerca, sono necessarie ulteriori indagini per comprendere meglio i meccanismi alla base di questo aumentato rischio. Perché l’infezione da Coronavirus abbia successo e SARS-CoV-2 entri all’interno della cellula, è richiesta la scissione della proteina virale spike che avviene con il coinvolgimento di alcuni specifici enzimi che sono le proteasi. Si sono identificate in questo studio (Jasper Fuk-Woo Chan e altri) tre proteasi in grado di facilitare l’ingresso di SARS-CoV-2, la cui inibizione, attraverso specifiche molecole, potrebbe ridurre l’ingresso del virus e quindi rivelarsi importante nella strategia terapeutica dei pazienti con COVID-19. Il rischio di comparsa di nuove variati di SARS-CoV-2 è più alto durante l’infezione cronica, nel corso della quale il virus continuamente si replica e rimane vitale. Infatti, in questa fase la replicazione virale si traduce in 35 sostituzioni di componenti del virus che è due volte superiore al normale tasso evolutivo globale dello stesso in normali condizioni. Questa particolare situazione suggerisce che l’infezione cronica accelera l’evoluzione di SARS-CoV-2 e favorisce la comparsa di nuove varianti che potrebbero, come è avvenuto in passato, rivelarsi estremamente importanti in termini di impatto sulla sanità pubblica (Chaguza C. e altri), sia per quanto attiene la trasmissione che la gravità di malattia.
Bambini vaccinati
È stata condotta una revisione sistematica ed una meta-analisi (Watanabe A. e altri) sull’efficacia e sicurezza dei vaccini a mRNA anti COVID-19 nei bambini di età compresa tra 5 ed 11 anni. La valutazione ha riguardato 17 studi ed ha coinvolto un numero di quasi 11 milioni di bambini vaccinati. Dai risultati ottenuti, c’è stata la conferma della sicurezza ed efficacia dei vaccini a mRNA anche nei bambini di età compressa tra i 5 e gli 11 anni e questo risultato è in linea con la raccomandazione degli organismi internazionali di controllo al loro impiego in tutte le fasce di età. Uno studio prospettico di coorte condotto nel sud della California (Florea A. e altri) ha coinvolto circa mezzo milione di soggetti vaccinati con una dose di richiamo (3° dose), confrontati con un pari numero di soggetti vaccinati con solo due dosi. È risultato che il richiamo con il vaccino a mRNA Moderna ha conferito una protezione aggiuntiva sia contro l’infezione da SARS-CoV-2 che la malattia grave, rispetto alla sola vaccinazione primaria con due dosi. Questo studio rappresenta un’ulteriore conferma che lo schema vaccinale che prevede solo due dosi deve essere sostituita da uno che comprenda anche la dose di richiamo. Questo andrebbe particolarmente stressato nell’opinione pubblica, tenuto anche conto che anche in un paese come l’Italia con un alto tasso di vaccinazione, c’è ancora una percentuale non piccola di persone eleggibili che non hanno ancora completato il ciclo vaccinale con tre dosi. L’ampia diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2 e la disponibilità dei test diagnostici domiciliari (tamponi naso-faringei), ha inevitabilmente portato in tutto il mondo a non segnalare la positività del tampone fatto a domicilio, il che rende ampiamente sottostimati gli attuali numeri della pandemia. Uno studio condotto negli Stati Uniti (Soo Park e altri) in oltre 100.000 partecipanti, ha indicato che i tamponi effettuati a domicilio sono più comuni durante la primavera e l’estate e che, in tempi recenti, essi assommano ad oltre l’80% di tutti i test SARS-CoV-2 riportati. Anche se esistono certamente dei limiti a questa ricerca dovuti alla disponibilità, al costo del kit del test ed al tipo di popolazione che lo utilizza, la conclusione (ampiamente condivisibile) a cui giungono gli autori conferma, per utilizzare le loro stesse parole, “la saggezza comune che i conteggi ufficiale dei casi COVID-19, sottostimano sempre il numero delle persone positive e sottostimano enormemente il numero delle vere infezioni”. Riconosciuto questo aspetto, va però segnalato che la percentuale di positività al tampone riportata ufficialmente negli Stati Uniti sembra riflettere la positività dei test eseguiti a casa, anche se in particolari circostanze questa potrebbe divergere.
Mortalità
La pandemia COVID-19 ha impattato negativamente su varie componenti, non ultima, l’aspettativa di vita della popolazione generale. Questo risulta chiaro dai dati finali statunitensi sulla mortalità osservata nel 2021. Infatti, nel periodo 2020-2021, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è passata da 77 anni a 76,4 anni (Bridget M. Kuehn) e questa riduzione è senz’altro ascrivibile in maniera preponderante alla pandemia COVID-19. La diminuzione dell’aspettativa di vita è risultata essere differente a seconda del gruppo etnico coinvolto e del sesso, dal momento che i maschi presentano una maggiore riduzione, rispetto alle femmine. In uno studio di coorte (Hao Luo e altri) sono stati identificati circa 850.000 soggetti con diagnosi di demenza identificati nei data base di: Francia, Germania, Italia, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti. I pazienti con demenza sono stati valutati per i tassi di prescrizione di farmaci antipsicotici, mettendo a confronto il periodo pre-pandemico con quello pandemico. È risultato che la percentuale di prescrizione dei farmaci antipsicotici alle persone con demenza, è aumentata nei primi mesi della pandemia in tutti e 6 i paesi studiati e questa non è diminuita ai livelli pre-pandemici dopo la fine della prima fase acuta della pandemia. Questo risultato suggerisce che la pandemia ha interrotto la cura delle persone che vivono con demenza ed è quindi necessario sviluppare strategie di intervento alternative al fine di garantire la qualità delle cure di questi pazienti.
Cosa sappiamo del Covid
COVID-19 è stato oggetto di una straordinaria ricerca scientifica, sia di base che clinica, che si è tradotta nell’arco di soli tre anni in un numero significativo di pubblicazioni che alla data del 6 febbraio 2023 assommano a 335.871, così come si evince dal sito Pubmed della National Library of Medicine statunitense. Per comprendere meglio questo fenomeno, è stato effettuato su 5013 manoscritti inviati ad una rivista medica di tipo generalistico ad accesso aperto, una valutazione (Perlis R.H. e altri) su come è cambiata la revisione (peer review) prima e durante la pandemia COVID-19. Mettendo a confronto il periodo pre-pandemico con quello pandemico, le revisioni dei manoscritti valutati essere di alta qualità (molto buona o eccellente) sono aumentate leggermente ed i tempi medi di revisione sono risultati più bassi, il che indica che, almeno nell’anno iniziale della pandemia, c’è stato un miglioramento per quel che attiene la revisione dei manoscritti che ha sicuramente favorito la pubblicazione e la diffusione delle ricerche. Sempre sullo stesso argomento, si segnala una revisione sistematica di confronto tra gli studi clinici randomizzati su COVID-19 apparsi come pre-print nelle piattaforma e quindi privi di revisione ed i corrispondenti articoli apparsi nelle riviste (Bai A.D. e altri). Da questa ricerca è emerso che dei 152 pre-print, 119 di essi sono successivamente apparsi in una rivista scientifica e confrontando i risultati iniziali con quelli pubblicati definitivamente non sono emerse particolari differenze, tanto che le conclusioni degli studi sono rimaste coerenti con quelle precedentemente indicate. Questo risultato fornisce un’indiretta conferma della grande utilità svolta dalle piattaforme nel corso della pandemia COVID-19, dal momento che hanno veicolato, in modo rapido, la diffusione di importanti risultati scientifici non solo tra gli addetti ai lavori ma anche, attraverso i media, nell’opinione pubblica.
La Stampa