La Stampa. Per la sanità pubblica spendiamo meno di tutti in Europa, ma gli italiani hanno il record di quella sostenuta con le proprie tasche: oltre 1.700 euro a famiglia, dice l’ultimo rapporto del Crea Sanità. E così la sanità diventa sempre più classista, perché un italiano su dieci rinuncia alle cure, circa 1,2 milioni di famiglie accrescono il loro disagio economico mentre altri 378mila cadono al di sotto della soglia di povertà. La causa di questo disastro sociale sono sempre loro, le liste d’attesa, che costituiscono una barriera spesso insormontabile soprattutto per accedere a visite e accertamenti diagnostici. Fino a 720 giorni per una mammografia, un anno per tac ed ecografie, sei mesi per una risonanza, oltre due mesi persino per una visita oncologica.
Eppure un metodo per aggirare la trappola c’è: chiedere di ottenere dal privato, dietro il solo pagamento del ticket, la visita o l’accertamento entro i tempi massimi stabiliti dalla normativa nazionale. Peccato però che Asl, ospedali e Regioni facciano a gara per eluderla. Al privato, dice un decreto legislativo del 1998, si può ricorrere tutte le volte che nel pubblico le attese vanno oltre: 72 ore se la prestazione è urgente (codice U sulla prescrizione), 10 giorni se da erogare a breve (B), entro 30 giorni per le visite e 60 per gli esami diagnostici se c’è la lettera P di programmabile. Pochi però lo sanno, perché le aziende sanitarie pubbliche non informano gli assistiti e tantomeno offrono loro i moduli per fare richiesta di accesso al privato. A sbarrare la strada ai pazienti ci si mettono poi le Regioni con i loro siti, che di fatto taroccano i tempi di attesa. Alcune inseriscono un numero di giorni medio senza distinguere tra prestazioni urgenti e differibili, fornendo così un’informazione inutile al fine dell’accesso in tempi più rapidi al privato. Altre pubblicano solo i dati di alcune Asl, probabilmente le più efficienti. Ben 17 Regioni danno i tempi solo di alcune prestazioni e non di altre e 16 non specificano se i tempi indicati siano una previsione, magari ottimistica, o se rispecchino la situazione al momento. Infine tanto le aziende sanitarie pubbliche che quelle private convenzionate quando dopo la prima metà dell’anno si accorgono di essere prossime a superare il budget assegnatogli, per non erogare prestazioni che non gli verrebbero poi rimborsate fanno una cosa semplice quanto illegale: chiudono le agende di prenotazione. Ovviamente per loro, non per gli assistiti, che nel 2021 hanno speso per curarsi 37 miliardi, 2,2 in più di tre anni prima. Un esborso che non ha risparmiato nemmeno i malati di cancro, che nell’ultimo anno, calcola la Favo che li rappresenta in Europa, hanno dovuto spendere in media 1.841 euro. —