Cristina Casadei, il Sole 24 Ore. Occupazione. Nel post pandemia in cima alle attese dei dipendenti c’era l’equilibrio vita-lavoro. Oggi secondo il Randstad workmonitor più della metà temono incertezza economica e calo del potere d’acquisto
L’inflazione a doppia cifra cambia le attese dei lavoratori. Se l’ultimo dato Istat dello scorso dicembre ha registrato un balzo dell’indice dei prezzi al consumo dell’11,3% rispetto allo stesso mese dell’anno prima, l’effetto comincia a farsi sentire anche nelle attese dei dipendenti. Se nel post pandemia andavano a parare prevalentemente sulla sfera dell’equilibrio tra lavoro e vita privata e sulla maggiore disponibilità di tempo per sè e la propria famiglia, oggi se si chiede a un lavoratore italiano che cosa vorrebbe dal suo datore di lavoro le risposte più frequenti vanno a parare sulla retribuzione. A porre la domanda è stata Randstad che nel suo Workmonitor, realizzato sentendo 35mila lavoratori in 34 paesi del mondo, in Italia ne ha intervistati mille di età compresa tra 18 e 67 anni. Risultato: c’è chi (47%) dice che vorrebbe un aumento mensile in base al costo della vita, chi (44%) ne vorrebbe uno in linea con la consueta periodicità delle revisioni salariali annuali , chi chiede contributi per il costo dell’energia, dei viaggi o di altre spese quotidiane (32%). Poco meno di uno su tre (31%) si aspetta un aumento di stipendio al di fuori della salary review, un quarto (25%) un’indennità una tantum per il costo della vita. Il group ceo di Randstad, Marco Ceresa, ci spiega che «di fronte allo spettro di una possibile crisi economica e all’aumento dell’inflazione, oggi i lavoratori italiani chiedono maggiore stabilità finanziaria, associata a sicurezza occupazionale: evidentemente una reazione all’incertezza del periodo, che ha introdotto una nuova attenzione alle condizioni materiali del lavoro».
Posto fisso e carriera
La sicurezza del posto di lavoro e la carriera ritornano in cima ai pensieri delle persone. Secondo il Workmonitor di Randstad ben il 54% dei lavoratori in Italia è preoccupato per l’impatto dell’incertezza economica sul proprio posto di lavoro, il 49% per la propria carriera. La richiesta che arriva con più forza è quella di una maggiore sicurezza occupazionale e stabilità finanziaria. Del resto, come ha rilevato una recente ricerca della Fabi, il sindacato autonomo dei bancari italiani, l’inflazione e il caro-vita invertono la tendenza al risparmio degli italiani: dopo quattro anni di costanti aumenti, nel 2022 il saldo totale dei conti correnti delle famiglie del nostro Paese è diminuito di quasi 20 miliardi di euro per fronteggiare per lo più le spese correnti: il crollo del potere di acquisto costringe gli italiani ad attingere alle loro riserve per far fronte ai maggiori costi. Le aspettative economiche risalgono così tra le cause del fenomeno delle dimissioni che si mantiene sempre su livelli molto elevati, come mostra l’ultima fotografia scattata dal ministero del Lavoro, basata sulle comunicazioni obbligatorie, che hanno riguardato oltre 1,6 milioni di rapporti di lavoro nei primi 9 mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate più di 1,3 milioni. Le interviste di Randstad tra i lavoratori dipendenti hanno evidenziato che oggi il 66% non accetterebbe un nuovo lavoro se non offrisse un inquadramento come dipendente e il 60% se non offrisse uno stipendio più elevato. Il 58% direbbe no a un nuovo lavoro se influisse negativamente sull’equilibrio vita-lavoro, il 48% se non sentisse senso di appartenenza. «È interessante notare che, in questo scenario, le persone non sono comunque disposte a rinunciare a elementi come flessibilità, qualità del lavoro e worklife balance emersi con grande forza durante la pandemia», osserva Ceresa.
Gli interventi delle imprese
Nel difficile scenario che lo shock energetico e l’inflazione hanno determinato le imprese, come riconoscono gli stessi lavoratori, sono intervenute per sostenerli sul fronte economico in molti modi. Al netto del fatto che la contrattazione collettiva nazionale contribuisce a recuperare l’inflazione (attraverso l’Ipca che però è depurato dai costi energetici importati), negli ultimi 6 mesi, il 43% dei lavoratori ha ricevuto un sostegno economico straordinario per far fronte all’aumento dei costi, nella forma di un’indennità una tantum per il costo della vita (17%), di contributi per il costo dell’energia dei viaggi o altre spese quotidiane (15%), di un aumento mensile in base al costo della vita (14%) o di un aumento di stipendio al di fuori della periodicità (9%). Gli interventi però per chi li ha ricevuti non si sono rivelati sufficienti, al punto che ben 7 dipendenti su dieci hanno deciso di intraprendere una qualche azione per far fronte al carovita, come aumentare le ore lavorate (26%) o iniziare un secondo lavoro (22%). E c’è anche chi sta pensando di cambiare lavoro alla ricerca di una retribuzione più alta (17%), chi sta lavorando di più da casa per evitare costi degli spostamenti (15%) o, al contrario, di più in ufficio per risparmiare sulle bollette energetiche (14%). E persino chi sta valutando di posticipare il pensionamento (15%). «L’indagine dimostra che le imprese si sono attivate per tutelare i lavoratori dall’inflazione – interpreta Ceresa -: negli ultimi i 6 mesi il 43% ha fornito un sostegno economico straordinario, una quota superiore alla media europea, pari al 37%. Ma nella valutazione complessiva, gli italiani non si considerano adeguatamente retribuiti e le difficoltà contingenti hanno accentuato il divario tra la condizione attuale e le aspettative. Per questa ragione, quasi metà dei dipendenti vorrebbe un riconoscimento economico definitivo, esprimendo nel contempo maturità nel farsi parte attiva per superare gli effetti dell’incertezza. Un’esigenza che richiama tutti, anche le istituzioni, a interventi strutturali sul tema retributivo».
La flessibilità
Se il fattore economico risale la classifica, la flessibilità di orario rimane comunque rilevante nel lavoro attuale o futuro per l’83% degli italiani, quella di luogo per il 72%. Ma la sua importanza si capisce anche dal fatto che la mancanza di flessibilità è un buon motivo per rifiutare una nuova offerta di lavoro, nel 35% dei casi per l’orario, nel 33% per il luogo. Proprio la flessibilità per il 23% degli intervistati è stata la ragione per lasciare il posto di lavoro precedente. Se sulle aspettative economiche i lavoratori dipendenti riconoscono l’impegno delle imprese, sulla flessibilità le aspettative non sono soddisfatte, nonostante il continuo miglioramento. Il confronto internazionale mostra che l’Italia è al di sotto delle medie globali. Il 45% delle organizzazioni offre già flessibilità oraria, il 27% l’ha introdotta nell’ultimo anno, ma questo dato, nel confronto internazionale risulta ancora di 8 punti sotto la media globale. Il 44% delle organizzazioni, invece, offre flessibilità di luogo, il 25% la ha introdotta nell’ultimo anno. Anche in questo caso ci separano 6 punti dalla media globale.