Repubblica In casa Lega hanno la data segnata col cerchio rosso. Domani l’autonomia differenziata va in Consiglio dei ministri, ieri c’è stato un pre-Consiglio che ha dato il via libera con qualche piccola modifica al ddl. «Sarà una giornata storica », si felicita il presidente del Veneto Luca Zaia. E va bene che poi lo strumento andrà calibrato regione per regione con un meccanismo non ancora completamente chiaro, ma è quanto basta per soddisfare soprattutto il Carroccio.
Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno preteso dei ritocchi, in primis il rafforzamento del ruolo del Parlamento. Subito dopo l’intesa preliminare fra Stato e singola regione, infatti, viene inserito un atto di indirizzo da parte delle Camere, il quale a proprio volta sarà quindi votato nelle due Aule. Non limitandosi quindi «all’esame da parte dei competenti organi parlamentari», ossia le commissioni. C’è poi in ballo l’aumento da sei mesi a un anno del periodo prima della scadenza del preavviso per manifestare lavolontà, sia eventualmente da parte dello Stato sia dalla Regione, di non proseguire con l’intesa. Dal provvedimento sono poi stati cancellati i riferimenti al criterio della spesa storica, su forte pressing anche dei presidenti di Regione del centrodestra al sud. Ma la sostanza del provvedimento non sembra cambiare, fanno trapelare dagli uffici del ministro agli Affari regionali, Roberto Calderoli. Anche se comunque resta da chiarire il nodo della definizione e del finanziamento dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale: con la legge di Bilancio il governo si è preso un anno di tempo per definire quali siano le materie Lep e quali siano i livelli delle prestazioni da assicurare.
Insomma, il nuovo assetto non sarà un passaggio automatico. Ad esempio il presidente calabrese Mario Occhiuto (Forza Italia) avverte la necessità che prima «si garantiscano gli obblighi che la nostra Carta fondamentale pone in capo allo Stato in ordine alla definizione dei fabbisogni standard, ai diritti sociali e civili garantiti con uniformità su tutto il territorio nazionale e alla perequazione». Dopodiché l’accordo nel centrodestra è che la riforma vada di pari passo con il presidenzialismo, per arrivare a fine legislatura a un’Italia «federale e presidenziale», per dirla con le parole del vicepremier e leader leghista Matteo Salvini.
Se il Carroccio è pronto a giocarsi la bandierina in campagna elettorale soprattutto in Lombardia, già si preannunciano proteste e tentativi di opposizione. «Questa riforma è una presa in giro — spiega il segretario generale della Cgil Maurizio Landini — siamo già un Paese che è diviso, non c’è la stessa condizione della sanità in tutto il Paese, dipende dalla regione in cui sei nato e in cui vivi. Non c’è lo stesso sistema scolastico, i diritti alla salute e all’istruzione, ad esempio,non sono due diritti che sono garantiti a tutti i cittadini come dice la nostra Costituzione».
Gli oltre duecento sindaci del Sud che a inizio anno avevano intasato la casella di posta del Quirinale chiedendo a Sergio Mattarella di tutelare l’unità nazionale contro il disegno autonomistico adesso masticano amaro. «Siamo pronti ad azioni eclatanti», promettono, senza anticipare nulla. Intanto adesso chiedono di essere ricevuti dal capo dello Stato, ritenuto l’unico possibile garante dell’unità nazionale. Sono primi cittadini anche di medie città come Catanzaro, Matera, Agrigento, sindaci di sinistra, destra, del M5S e di liste civiche. Un fronte trasversale, con anche alcune adesioni al nord di piccoli comuni. Poi c’è il “Tavolo no autonomia differenziata” composto da quei gruppi, comitati, associazioni e partiti che non vogliono vedere andare in porto la nuova stagione di “devolution” e stanno cercando di organizzare una manifestazione a Roma. Pd, 5 Stelle, Alleanza verdi sinistra, ma anche Azione e Italia viva, sono pronti a offrire una copertura parlamentare. Un disegno che per la prima volta sembra essere in grado di riunire le opposizioni.