«Gli operatori sanitari sono pochi perché in passato non è stata fatta un’attenta programmazione del fabbisogno del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Questa carenza ha portato a sfruttare maggiormente le risorse disponibili senza neanche dare loro una retribuzione congrua. E non riuscendo a rispondere ripetutamente e in tempi ragionevoli ai bisogni di salute è aumentata la frustrazione dei cittadini e questo potrebbe aver portato a un aumento delle aggressioni contro i sanitari». È un’analisi lucida quella del Sottosegretario al ministero della Salute Marcello Gemmato, il quale spiega a Sanità Informazione come le attuali «emergenze» sanitarie italiane siano in qualche modo tutte collegate.
Sottosegretario, in che modo il ministero della Salute intende intervenire su questa emergenza aggressioni?
«Di concerto con il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, il ministro della Salute Orazio Schillaci ha prodotto un elenco dei Pronto Soccorso italiani dove si sono verificati il maggior numero di aggressioni. Si è quindi partiti con l’apertura di presidi delle Forze dell’Ordine che hanno lo scopo di tutelare la sicurezza degli operatori sanitari. È evidente il bisogno di proteggere i medici che lavorano nei reparti di emergenza da aggressioni che una società civile non può in alcun modo tollerare».
Ci sono altre misure al vaglio?
«Si sta costituendo a livello ministeriale un Tavolo sui Pronto Soccorso che, in realtà, ha come mission principale quello di andare a intervenire sulle criticità legate alla carenza dei medici di medicina d’urgenza, legata a sua volta a una sbagliata programmazione che è stata fatta sostanzialmente 10 anni fa. Lo stesso tavolo affronterà anche la distribuzione non congrua dei carichi di lavoro, all’utilizzo inappropriato dei “medici gettonisti” e così via. Ma si parlerà sicuramente anche del problema delle aggressioni».
Immagina già qualche specifica linea di intervento contro le aggressioni?
«Se dovessimo identificare delle motivazioni per cui questi eventi deprecabili avvengono, mi viene subito in mente il fatto che i Pronto Soccorso italiani vengono troppo spesso presi d’assalto e il più delle volte da “codici bianchi”, cioè da persone che nei Pronto Soccorso non dovrebbero arrivare. Sarebbero circa il 70 per cento: in pratica su 100 persone che arrivano in Pronto Soccorso ben 70 non dovrebbero stare lì. Questo avviene perché c’è una grave carenza da parte della sanità territoriale. A seguito del DM70 del 2015 si è verificata una rimodulazione e razionalizzazione dei Pronto Soccorso e a queste non è seguito un rafforzamento della sanità territoriale. Per cui ora ci si trova nella situazione che se una persona ha un malore anche poco grave si reca direttamente in Pronto Soccorso, affollandolo. Questo significa che ci sono pazienti che si mettono pazientemente in fila rispettando le urgenze e chi non accetta di dover aspettare e arriva anche ad aggredire l’operatore sanitario. Quindi, se da un lato l’apertura di presidi delle Forze dell’Ordine offre una risposta immediata al problema delle aggressioni, lavorare per colmare la carenza di operatori sanitari è una delle strade per prevenire il problema sul lungo periodo».
In che modo si può intervenire sulla carenza e, quindi, anche sulle aggressioni?
«Che la carenza degli operatori sanitari sia frutto di una sbagliata programmazione è evidente. Il percorso formativo di un medico prevede 6 anni più 4 di Specializzazione. In tutto sono 10 anni. Evidentemente la sbagliata programmazione va fatta risalire a 10 anni fa. Con numeri diversi e in tempistiche diverse un discorso simile si può fare anche per gli altre figure di professionisti sanitari. Quindi ora ci troviamo in questa situazione e penso che possa essere d’aiuto iniziare a calcolare meglio il fabbisogno di operatori nelle strutture sanitarie pubbliche».
Si sta pensando di modificare i criteri di selezione delle università o semplicemente a un aumento dei posti disponibili?
«Il ministro dell’Università Anna Maria Bernini ha convocato un tavolo tecnico sul fabbisogno del personale sanitario in Italia per capire se il Numero Chiuso sia ancora uno strumento di selezione da mantenere. Probabilmente verrà aumentato il numero di posti per entrare alla Facoltà di Medicina e si valuteranno metodi di selezioni diversi».
Cosa c’è che non va nel Numero Chiuso?
«Diverse cose. A cominciare dal fatto che oggi per entrare a Medicina si deve superare un quiz, in cui sostanzialmente ci sono domande su materie anche estranee alla cultura della professione medica. Poi in generale ritengo che vincolare l’accesso a Medicina al superamento di un quiz, che può andar male per diversi motivi, ad esempio un problema legato al giorno stesso della prova, come un incidente in auto o un malessere. In questo modo uno studente meritevole può essere escluso, mentre un altro meritevole può “rubargli” il posto. Non è giusto».
A quali altri sistemi di selezione state pensando?
«L’idea poteva essere di ispirarsi al sistema francese che rende libero l’accesso al primo anno. In considerazione dei vincoli strutturali che abbiamo possiamo pensare di fare una selezione degli studenti più meritevoli al secondo e al terzo anno in base ai risultati accademici conseguiti. Ad esempio: “hai superato tutti gli esami? Bene continui. Non lo hai fatto? Non continui”».