Quale “organo” ci governa, mentre facciamo la spesa? Il cuore, il cervello o il portafoglio? Oppure tutti e tre? Domande legittime nell’era di una risvegliata inflazione, che ha colpito inevitabilmente anche il settore alimentare e che, ad oggi, continua a pesare sulle scelte del carrello degli italiani.
In Francia il presidente Emmanuel Macron ha “suggerito” al sistema agroalimentare francese e alle catene di approvvigionamento di introdurre una sorta di calmiere dei prezzi per una lunga lista di prodotti, invitando la distribuzione a rispondere al diminuito potere d’acquisto delle famiglie. Una soluzione per sostenere nei fatti il made in France e garantire una sorta di diritto al cibo alla popolazione francese.
Anche l’Italia, con il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, ha tentato di seguire la medesima strada, con non poche difficoltà. L’industria alimentare ha avanzato alcuni distinguo già al Tavolo di fine luglio: non si può chiedere indistintamente a tutta la filiera di ridurre i prezzi, in quanto le dinamiche che hanno accompagnato gli ultimi dodici, diciotto mesi non sono state uguali per tutti.
A fronte di un incremento del costo dell’energia e di alcuni prezzi (materie prime, packaging, energia, logistica e trasporti), alcune filiere hanno visto ridurre nel 2023 i costi, mentre per altre realtà sono rimaste le tensioni, se non addirittura si sono acuite. Un esempio: il prezzo del latte è diminuito nell’ordine del 25% rispetto a dodici mesi fa, il costo della plastica ha ceduto oltre il 18% in un anno, quello del gas il 71% rispetto allo stesso periodo del 2022 e l’energia si paga quasi l’80% in meno. Ma chi compra maiali da macello? Paga i suini mediamente il 20% in più. E il ragionamento del comparto è lineare: perché dovremmo ridurre i prezzi, quando la materia prima ci costa un quinto in più dell’anno scorso?
Di sicuro la spinta inflazionistica ha risvegliato sentimenti nazionalistici sul fronte gastronomico, per dare ossigeno alle filiere locali e rafforzare le economie territoriali.
In Germania, in piena recessione, il presidente del sindacato degli agricoltori tedeschi (Dbv), Joachim Rukwied, ha inviato i propri concittadini ad acquistare prodotti tedeschi, consapevole che in alcuni casi potrebbero costare di più dei prodotti esteri (in particolare dove l’autosufficienza è lontana, come nel caso dell’ortofrutta), ma che una maggiore attenzione alle produzioni locali darebbe ossigeno al tessuto imprenditoriale domestico.
Negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha annunciato una serie di investimenti che aumenteranno l’accesso al mercato e i flussi di reddito per i piccoli e medi produttori agricoli, rafforzando il sistema alimentare a livello nazionale e a livello locale, offrendo allo stesso tempo ai consumatori un migliore accesso agli alimenti prodotti su scala territoriale.
Il messaggio sembra dunque univoco e l’obiettivo è quello di rafforzare le filiere locali e il consumo di prodotti se non proprio a chilometro zero, almeno prodotti nel Paese, così da rafforzare in una fase complessa per l’economia e per i cittadini, i sistemi interni.
Lo sta facendo la Cina di Xi Jinping, con politiche di rafforzamento dell’agricoltura, lo stanno cercando faticosamente anche in Africa, dove maggiore forza dell’agricoltura locale significa maggiore possibilità di contenere le migrazioni economiche. E il recente Summit dei Paesi Brics (Brasile,Russia, India, Cina e Sudafrica) sembra confermare le strategie diplomatiche ed economiche del Dragone.
Ed è innegabile che si cerchi, a poche settimane dal Food Systems Summit 2023 organizzato dalla Fao, di individuare modelli agricoli più sostenibili, più produttivi e in grado di spingere sugli obiettivi dell’Agenda Onu al 2030, in particolare sul fronte sempre più preoccupante di “Fame Zero”. Temi che troppo semplicisticamente si relegano a Paesi lontani e ad altre latitudini, a che investono sempre più l’Italia, l’Europa e i Paesi considerati più avanzati.
Oggi chi acquista cibo sembra essere meno interessato ai claim che negli ultimi anni hanno spadroneggiato, al punto tale da annacquarsi e diventare un mantra di cui non si ha forse la piena consapevolezza. Ci riferiamo – consapevoli di sollevare una bomba – di definizioni come “made in Italy”, “sostenibilità”, “benessere animale”.
Secondo il report dell’Osservatorio Immagino GS1, nel 2022 si è registrato un calo delle vendite (in volume) del 5% per quei prodotti con claim o immagini riconducibili all’italianità. E parliamo di oltre 92mila prodotti per un valore che supera i 10 miliardi di euro.
Un dato che fa riflettere e sul quale dovrebbe aprirsi una riflessione della filiera è legato alle percentuali di prodotto in promozione: si va da un 26,1% di pressione delle promozioni in caso di marchio Dop (la cui certificazione dovrebbe bastare per dare garanzie certe al consumatore), fino al 43% delle etichette Docg (e qui siamo nell’ambito del vino).
In mezzo, possiamo collocare altri prodotti “costretti” alla promo: la bandiera italiana (27% di quota in promozione), il claim “100% italiano” (31,7%), il messaggio “prodotto in Italia” (31,3%).
Giù anche le vendite nel 2022 dei prodotti venduti esibendo sul packaging qualche patente di sostenibilità. Parliamo di oltre 36mila prodotti per un valore che supera i 15,4 miliardi di euro e che hanno segnato un calo in volume del 4,3%. Crescono, naturalmente, le vendite in valore, mentre evidentemente l’aumento dei prezzi costringe i consumatori a dare una sforbiciata agli acquisti in tutte le aree legate alla sostenibilità (management sostenibile delle risorse; responsabilità sociale; agricoltura e allevamenti sostenibili; rispetto degli animali). Anche in questo caso non sono mancate generose promozioni per invogliare gli acquisti da parte di un consumatore che negli ultimi diciotto mesi ha subìto la perdita di potere di acquisto.
Medesimo trend anche per l’area del benessere animale, egualmente in flessione, benché il consumatore almeno nelle dichiarazioni d’intento si proclami disposto a spendere di più per acquistare alimenti ottenuti nel rispetto dell’animal welfare. In sintesi e per completezza di dati: -9,8% le vendite in volume nel 2022 rispetto al 2021.
Quali indicazioni trarre, utili soprattutto per chi produce? Innanzitutto, al di là delle buone intenzioni e delle dichiarazioni, il principale driver di acquisto è il prezzo. Lo dicono alcuni trend di acquisto anche più recenti, in cui i prodotti di maggiore costo, salvo alcune eccezioni, sono in sofferenza o, comunque, registrano maggiori difficoltà.
L’altro elemento di riflessione è invece legato ai claim da utilizzare. Alcuni mesi fa, parlando con un importante player della distribuzione, emerse chiaramente come un proliferare di etichette, indicazioni, messaggi, rappresentava anziché uno strumento per comunicare maggiori informazioni al consumatore, uno veicolo disorientante. Meno messaggi, forse, ma più chiari.
Resta un altro fattore da capire. Se “made in Italy”, “sostenibilità”, “benessere animale” sembrano essere voci in questa fase di minore appeal, è giunto il momento di individuarne di nuovi? Sono forse superati, nel senso di “dati per acquisiti” dai consumatori? Le nuove generazioni, ad esempio, quali aspetti ritengono determinanti per gli acquisti? Conta di più il logo, il marchio privato, il marchio a ombrello, il territorio? Possibile – rischio di ripetermi, ma non me ne capacito – che i prodotti Dop debbano vivere una costante promozione, al punto che un terzo delle vendite debba subìre il giogo degli sconti, molto spesso orchestrati sulle spalle dei fornitori?
Una cosa è certa: quando il consumatore recupererà il potere di acquisto, tornerà a cercare requisiti di sostenibilità, ridotte emissioni, benessere animale. E li darà, probabilmente, come elementi essenziali. Per i quali, forse sarà disposto a riconoscere un valore aggiunto. Ma forse no. E bisognerà aggiungere qualche altro elemento di spinta. Magari, un maggiore sostegno alle comunità rurali. Facciamo passare il concetto che le produzioni locali aiutano i territori e si dimostri che un valore aggiunto aiuta concretamente determinate aree. Potrebbe essere una chiave vincente. Cosa ne pensate?
I suggerimenti, come d’abitudine, sono sempre graditi. Cerchiamo di costruire ponti, non muri. Gli agricoltori sono sempre pieni di idee, fatecele sapere.