Era a Gavoi, ed era negli anni Zero. Michela Murgia condivideva la direzione dell’“Isola delle storie” con Marcello Fois. Era la prima volta che la vedevo. Lei era dritta in uno dei vicoli, anzi dei crocicchi sacri agli dei, sorridente come è sempre stata, meravigliosa come è sempre stata. È la prima volta che l’ho vista. E questo non è importante, perché da questo momento ognuno ricorderà la sua Michela, estrapolerà una parola, un dialogo, un incontro, un ricordo, perché con chi muore si fa sempre così, chi muore diventa un’ombra lontana, e noi, al solito, siamo i protagonisti.
Ma Michela Murgia l’ha impedito. In questi mesi ha fatto sì che nessuna parola altrui sopravanzasse le sue: prima che questa notte di San Lorenzo la portasse via, ha scelto come raccontare la sua morte, nei libri, nelle storie Instagram, nelle feste di addio nel suo bellissimo giardino incantato conquistato con la forza e la testardaggine che erano parte integrante di lei, lo sono sempre stati. Lei si è raccontata da sola. Lo diceva, infatti, lo aveva detto sempre: se non si è in grado di sognare, si vive nel sogno degli altri.
Dunque, ripartiamo, ricominciamo. Gavoi. Aveva pubblicato il suo primo romanzo, Il mondo deve sapere. Sarebbe diventato un film di Paolo Virzì, che non aveva amato. Era la storia di quando lavorò come operatrice in un call center. Lei, che aveva studiato filosofia e teologia. Ancora poco, e avrebbe pubblicato Accabadora, che univa tanto di Michela: la sua esperienza di figlia d’anima e le storie antiche della Sardegna. Sarebbe stato un successo enorme, pluripremiato, insignito del Campiello, fra le altre cose. E fu in quell’occasione che Michela mostrò quella che era: la donna fortissima, coraggiosa, in grado di dire quel che gli altri balbettavano o non dicevano affatto. Protestò, da vincitrice, per le parole scorrette di Bruno Vespa, presentatore del premio nella serata televisiva, nei confronti di un’altra giovane scrittrice e della sua scollatura. Certi giornali, quelli che non avrebbero e non hanno perso occasione fino alla fine di considerarla un bersaglio, provarono a demolirla. Impossibile. Qualsiasi bassezza, qualsiasi insulto, di quelli che non sono mai cessati in rete fino alla fine, non l’hanno colpita (e adesso, cari miei, cosa dite? Con quale coraggio parlerete? Come proverete a procurarvi un briciolo di visibilità, voi che ad altro non aspirate, senza di lei?
È sempre stato così. Non c’è stato giorno in cui Michela non ha preso posizione, con un coraggio impressionante, sui fatti su cui gli altri e le altre, nella maggior parte dei casi, tacevano per pura convenienza, per non inimicarsi qualcuno, per non incrinare le possibilità di un avanzamento. Lei ha sempre osato. Da quando nel 2013 si presentò per le elezioni regionali con Sardegna Possibile. Me lo ricordo. Ci eravamo incontrate al Salone del Libro di Torino. «Sto cambiando vita», mi disse. E mi raccontò di quell’avventura che chiunque altro, con un premio Campiello alle spalle, avrebbe rifiutato. Mi raccontò dello spot che aveva in mente, una gara di corsa dove non era importante chi arrivava primo, ma quanti avrebbero partecipato. Comunità, coraggio, visione. Piangeva mentre me lo raccontava e ho pianto anche io.
Il cancro l’aveva colpita già allora. Ma la voglia di vita (la vita è bella, bella, bella, diceva) era riuscita a fare non so quale miracolo. Doveva scrivere un romanzo, allora, sui guaritori della Val d’Aosta, in grado di riportare in vita chi era condannato a morte dalla malattia. Non lo fece. Scrisse Chirù, che per lei era più importante, perché raccontava quel che le stava più a cuore, il poter essere madre non con la carne e il sangue ma con lo spirito, a dimostrazione che quel che conta è come si ama, non come gli altri vogliono che si ami. Non ha mai dato importanza all’opinione degli altri, a meno che non fossero le persone che amava e in cui credeva. Non ha mai fatto un calcolo, pesato le parole, cercato una scorciatoia. È stata la donna più coraggiosa e viva che ho conosciuto, e fino alla fine ho sperato che proprio per questo la morte la risparmiasse, che è il pensiero sciocco e inutile che fanno le amiche.
Restano i suoi libri, dicono. Sì, certo, i libri restano e resteranno, tutti. Ma io voglio credere che resterà qualcosa di più. Pochi, come lei, hanno saputo creare una comunità viva e palpitante, che ha visto dove lei sapeva vedere, che sulle donne, sul fascismo di ritorno, sulla politica, sui diritti, sulla dannata speranza che ci manca e che pure lei aveva e conservava, hanno trovato le parole giuste, calde. Quelle parole resteranno, quel che lei ha creato resterà. Resterà persino più delle parole scritte, e sembra assurdo dirlo, sembra assurdo per chi crede che i libri vincano la morte. Sono l’amore, il coraggio, la meravigliosa utopia di cui era portatrice, di cui è portatrice a vincere la morte. A farci sperare ancora, mentre guardiamo le stelle di San Lorenzo, in questo agosto tristissimo, eppure luminoso.
La Stampa – LOREDANA LIPPERINI