L’incontro (negativo) con le parti sociali
Dopo il nulla di fatto dell’incontro del 26 luglio tra l’Osservatorio sulla spesa previdenziale e le parti sociali, che si sono dette deluse, il cantiere della riforma delle pensioni, di fatto, va in vacanza. «Meloni ha davvero intenzione di rispettare le promesse fatte in campagna elettorale a partire dal pensionamento con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età?», si erano chiesti Cgil e Uil alla fine dell’incontro, promettendo di scendere in piazza in autunno. L’obiettivo dichiarato del governo, come sappiamo, è quello di cancellare del tutto la legge Fornero, che senza interventi tornerà nel pieno delle sue potenzialità allo scadere a fine anno di Quota 103 (stessa scadenza per Opzione donna e Ape sociale). Le opzioni possibili sul tavolo sono diverse, ma su tutte incombe una nube nera: nel biennio 2023-2024 la spesa per le pensioni, infatti, crescerà «significativamente», portandosi al 16,2% del Pil contro il 15,6% del 2022.
La stima è della Ragioneria generale dello Stato, che nel rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario spiega che «le previsioni scontano, inter alia, gli effetti della elevata indicizzazione delle prestazioni imputabili al notevole incremento dell’inflazione» per gli anni 2022 e 2023. Un livello più alto era stato raggiunto già nel 2020 (16,9%) per la caduta del Pil dovuta al Covid e, in misura minore, per Quota 100 (destinata a coloro che tra il 2019 e il 2021 hanno maturato i requisiti per pensionarsi con almeno 38 anni di contributi e 62 anni di età). Ma a tutto questo si è aggiunta la riduzione dei requisiti di accesso al pensionamento anticipato indipendentemente dall’età anagrafica per il mancato adeguamento nel 2019 di tali requisiti all’incremento della speranza di vita. Ora, il prossimo picco del 17% sarà toccato nel 2042.
Il macigno “inflazione”
Con un aumento della spesa certa e nuove risorse non reperite, come farà il governo Meloni a rispettare l’impegno elettorale e cancellare del tutto la Fornero? La domanda dei sindacati appare più che legittima, dato che sul confronto pesa come un macigno il recupero dell’inflazione. La rivalutazione totale rispetto all’aumento dei prezzi (5,6% l’inflazione acquisita per l’anno secondo i dati Istat di giugno), infatti, potrebbe arrivare a costare, secondo i tecnici al lavoro sul dossier, 14 miliardi di euro, anche se è probabile che anche per l’anno prossimo si studi una scaletta per la perequazione che salvaguardi le pensioni più basse ma limiti il recupero per quelle più alte. Di fronte alle risorse necessarie per fare fronte all’inflazione inevitabilmente si ridurranno i margini di manovra ed è dunque molto probabile che la riforma delle pensioni verrà rimandata ancora una volta, confermando le misure attuali: Ape sociale, Quota 103 e Opzione donna con qualche aggiustamento dato che secondo il Monitoraggio sui flussi di pensionamento il numero degli accessi nei primi sei mesi del 2023 si è molto ridotto rispetto al 2022. Intanto, entro fine settembre bisognerà approvare la nota di aggiornamento al Def, spartiacque in vista della legge di Bilancio 2024, con cui verrà definitivamente chiarito il dubbio riguardo alle risorse a disposizione. Prima della pubblicazione del documento che aggiorna il Def non ci saranno nuovi incontri con i sindacati e, quindi, si dovrà attendere ottobre per avere novità sul versante della riforma. Proviamo, comunque, a elencare le ipotesi di riforma più accreditate (qualora miracolosamente si trovassero le risorse).
L’ipotesi proroga Quota 103
Per cercare di venirne a capo, o almeno per temporeggiare, il governo vorrebbe – come era stato ampiamente previsto anche dal Corriere nell’ultimo anno – estendere Quota 103 a tutto il 2024 (in pensione a 62 anni di età e 41 anni di contributi). Non è neppure esclusa l’ipotesi di una sua stabilizzazione. Ma nel report della Ragioneria si legge che l’introduzione in via permanente di Quota 103 produrrebbe una maggior incidenza della spesa in rapporto al Pil valutabile in 8,4 punti percentuali rispetto ai risultati della legislazione vigente. In soldoni: oltre 170 miliardi di euro in 50 anni. Certo, per quella data il governo Meloni non ci sarà più e forse la premier non farà nemmeno più politica, dunque il problema non sarebbe più suo, ma l’eredità sarebbe di certo pesantissima.
L’ipotesi Quota 41
Sempre che non si trovino in extremis risorse per l’opzione Quota 41 , cara alla Lega (in pensione con 41 anni di contributi, a prescindere dall’età, ma con l’assegno calcolato con il metodo contributivo, che significa – rispetto alle altre pensioni – assegni più bassi anche del 20-30%). Secondo le stime della Ragioneria di Stato, però, estendere a tutti la possibilità di ricorrere a Quota 41 comporterebbe un costo di 5 miliardi di euro all’anno, con picchi che raggiungerebbero anche i 9 miliardi. Sono cifre troppo alte e che rischiano di compromettere la stabilità del sistema pensionistico italiano.
Alla luce di tutto questo, l’apertura che si dice esserci da parte di Meloni a Quota 41, avrebbe una condizione e cioè una penalizzazione per abbattere i costi. L’ipotesi più accreditata, ma che non piace per nulla ai sindacati, parla di un ricalcolo interamente contributivo dell’assegno per coloro che vanno in pensione con 41 anni di contributi anziché attendere che vengano maturati i requisiti per la pensione anticipata (42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini, uno in meno per le donne). Questo significherebbe una decurtazione dell’assegno di circa il 10-15%, di fatto chiedendo all’aspirante prepensionato di anticipare di tasca propria parte del costo. L’alternativa per molti sarebbe alla fine quella di continuare a lavorare 2 anni e andare in pensione con la legge Fornero. Salvando il Bilancio dello Stato.
L’ipotesi Quota 96 (o Quota 95)
Altra opzione sul tavolo riguarda un ritorno di Quota 96 (61 anni di età e 35 anni di contributi) per chi svolge lavori particolarmente gravosi. Con questo meccanismo, coloro che svolgono mansioni usuranti potrebbero andare in pensione a 61 anni di età e con 35 anni di contributi. Sul tavolo anche la proposta di un ulteriore abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, creando così una “Quota 95”.
Comunque sia, con questo nuovo strumento l’Ape sociale verrebbe confermata. Se saltasse Quota 96 si potrebbe estendere l’attuale Ape che, istituita dalla legge di Bilancio 2017, prevede un’indennità a carico dello Stato erogata dall’Inps, entro dei limiti di spesa, a soggetti in determinate condizioni previste dalla legge, abbiano compiuto almeno 63 anni di età e non siano già titolari di pensione diretta in Italia o all’estero. L’indennità viene corrisposta fino al raggiungimento dell’età prevista per la pensione di vecchiaia o per la pensione anticipata. Anche l’Ape sociale è previsto che scada il 31 dicembre 2023.
La staffetta generazionale