di DAVID QUAMMEN
Gli esperti temono che uno di questi giorni scoppi una nuova epidemia globale, forse anche più grave del Covid. Il virus che li preoccupa maggiormente è l’H5N1, una forma di influenza aviaria. Alcuni ricercatori hanno avvertito che con poche mutazioni, o forse solo un improvviso scambio di segmenti genetici, questo letale virus influenzale potrebbe acquistare la capacità di diffondersi da uomo a uomo.
In verità, la prossima pandemia è già iniziata. Il termine preciso è panzoozia e si tratta di un’epidemia ampia e diffusa tra gli animali non umani. Questa pandemia è già in corso.
Per afferrare l’entità di questa catastrofe, dobbiamo distogliere almeno un po’ lo sguardo dagli esseri umani. L’H5N1 sta sterminando gli uccelli del pianeta. Stanno morendo aquile, gufi giganti dalle corna, falchi pellegrini e pellicani. Poco tempo fa, venti condor della California sono morti per sospetta influenza aviaria: in seguito, dieci casi sono stati confermati. Si tratta della cosa peggiore accaduta agli uccelli del pianeta dai tempi del pesticida Ddt.
Gli uccelli marini che nidificano in grandi colonie sono un po’ più visibili. Proprio la densità della loro nidificazione, però, li rendi più esposti alle malattie contagiose, senza contare che quelli che vivono a lungo arrivano alla maturità a un’età relativamente tarda, così che le loro popolazioni sono più lente a riprendersi. Nel maggio scorso, in una colonia di beccapesci sulla costa francese, durante la stagione della riproduzione, alcuni osservatori hanno contato più di mille carcasse morte. Nel complesso, la Francia forse ha perduto nel giro di una settimana il dieci per cento della sua popolazione nidificante.
Qualsiasi influenza aviaria di questo tipo, così letale, si chiama influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI, highly pathogenic avian influenza). Questa definizione è stata utilizzata in passato per virus che infettavano il pollame. Fino a questo secolo, questo tipo di virus era praticamente sconosciuto tra gli uccelli selvatici. L’eccezione si verificò nel 1961, quando sui litorali del Sudafrica si trovarono le carcasse di alcune sterne comuni. La loro morte era imputabile a un nuovo virus aviario del tipo generico che – come ormai sappiamo – è endemico negli uccelli acquatici e che qualche volta passa agli uccelli domestici, ai maiali e agli esseri umani. Dopo la morte di quelle sterne, tuttavia, tra gli uccelli selvatici per decenni non c’è stata nessuna altra influenza aviaria così virulenta. Alcune nuove influenze sono state diffuse dagli uccelli selvatici, è vero, ma in forma più lieve e di solito hanno fatto ammalare poco o per nulla gli uccelli domestici. L’evoluzione in forme più letali era qualcosa che capitava perlopiù nei volatili d’allevamento.
Nel 2018 un epidemiologo belga, Marius Gilbert, ha diretto uno studio su questo fenomeno, passando in rassegna con i suoi colleghi 39 casi in cui una leggera influenza aviaria si era evoluta in un virus letale. Di quelle 39 variazioni, soltanto due non si sono verificate tra i volatili allevati a fini commerciali.
Sarebbe esagerato – ho chiesto di recente a Marius Gilbert – giungere alla conclusione che gli allevamenti di volatili commerciali sono all’origine del problema delle influenze che interessano noi umani e anche gli uccelli selvatici? «No, ma dobbiamo saper distinguere», ha risposto.
“Volatili commerciali” può voler dire che c’è un’aggregazione vasta e soprattutto densa di uccelli, migliaia o centinaia di migliaia nelle attività su scala industriale, ma può voler dire anche dieci galline e sei anatre nel cortile di famiglia in un paesino rurale. Le anatre condividono le risaie con gli uccelli selvatici di passaggio, e alcuni polli sono venduti vivi al mercato locale. I virus circolano in ogni direzione, perfino tra i bambini che giocano con le anatre.
L’attuale ceppo H5N1 di influenza aviaria in circolazione si presentò nel 1996, tra le oche d’allevamento di una zona rurale della provincia di Guangdong nel sud della Cina. Il suo tasso di letalità tra quelle oche fu del 40 per cento, con sintomi che compresero sanguinamenti e disfunzioni neurologiche. A un certo punto, il virus passò negli uccelli selvatici, diffondendosi attraverso l’Asia, l’Europa e il Medio Oriente, e in qualche caso infettando anche gli uomini e altri mammiferi, senza innescare però lunghe catene di contagio.
Nel dicembre 2021, il virus è stato individuato tra gli uccelli selvatici e Terranova e Labrador, e pare che da lì sia stato trasportato dalla selvaggina migrante lungo l’Atlantic Flyway fino alla Carolina del sud e del nord, in Georgia e in Florida. È lì che Nicole Nemeth, patologa della fauna selvatica dell’Università della Georgia, l’ha individuato, quando nel suo laboratorio hanno portato aquile di mare morte.
Con i suoi colleghi, Nicole Nemeth ha riscontrato un’alta percentuale di riproduzione fallita tra le aquile di mare testa bianca (nessun pulcino sopravvissuto), e adulti privi di vita, analizzati in laboratorio e morti perché dilaniati dal virus HPAI. «Un fenomeno davvero molto triste e preoccupante», mi ha detto.
Gli uccelli adulti perdevano il controllo dei muscoli, scuotevano la testa dando segno di debolezza e paralisi, si accasciavano e precipitavano dai loro alti nidi. Le aquile di mare testa bianca sono grossi uccelli che arrivano a pesare anche sei chilogrammi e mezzo, per cui quando cadono si sfracellano al suolo. «Da patologa, ho osservato attentamente questi uccelli e ho constatato che stavano palesemente morendo di un’infezione virale acuta molto grave», ha detto Nicole Nemeth. Alcune aquile, probabilmente, quando cadevano al suolo erano già morte.
Le autopsie hanno rivelato collasso degli organi interni ed encefalite, ma anche traumi contusivi e sanguinamento per le cadute dall’alto. Quando gli adulti si ammalavano e precipitavano al suolo, anche i pulcini implumi si spegnevano, o per la medesima infezione oppure perché rimasti orfani. Nella stagione 2022, lungo le coste della Georgia, la percentuale di successo riproduttivo tra le aquile marine testa bianca è diminuita del 30 per cento.
La situazione potrebbe farsi molto più grave. Nicole Nemeth mi ha detto che c’è davvero poco che la scienza o la gestione della fauna selvatica possano fare. È impossibile vietare a un virus di circolare come si può vietare l’uso di una sostanza chimica, non nel caso di un virus che viaggia ovunque tra gli uccelli selvatici ed evolve di continuo tra quelli domestici.
Nel nostro piccolo mondo vivono otto miliardi di esseri umani. Adesso si contano anche più di 33 miliardi di galline. Questa immensa orda di pollame domestico è un anello importante nella catena di causa ed effetto che sta sterminando gli uccelli selvatici in tutto il mondo. Dovremmo prendere in considerazione cosa fare in proposito e, se non si può fare molto con la gestione della fauna selvatica, forse potremmo imparare a gestire meglio noi stessi.
Dovremmo riflettere su come il facile accesso nei supermercati a petti e cosce di pollo a buon prezzo, confezionati nella plastica, possa costituire un pericolo letale per gli sparvieri, i falchi e i gufi delle nostre foreste, le anatre e le strolaghe delle nostre paludi, gli avvoltoi che spazzano via le carogne, le cornacchie che ci divertono in città, i gabbiani e le rondini di mare lungo le nostre coste, le oche selvatiche che ci piace sentir starnazzare quando migrano a sud nelle notti d’autunno. E le galline potrebbero diventare un pericolo per noi. Dovremmo tenere ben presente che quei 33 miliardi di polli e di galline da carne rappresentano un’enorme capsula di Petri per l’evoluzione continua dei virus influenzali. Uno solo di essi – così, a caso – potrebbe benissimo andare incontro a mutazioni tali da farlo diventare il prossimo incubo della specie umana. Le aquile continueranno a cadere dai loro nidi, una vera e propria tragedia. E le galline avranno ripercussioni nocive su noi uomini.
Traduzione di Anna Bissanti
La Stampa