Se si verificasse il passaggio dal suino selvatico a quello di allevamento, la perdita economica nel nostro Paese schizzerebbe a 60 milioni. Il Commissario Straordinario per l’Emergenza della Peste Suine Africana tira le somme sulle misure adottate in un anno e ricorda il lavoro fondamentale svolto dai servizi veterinari. Ma per proseguire con le attività di prevenzione e di eradicazione della malattia servirebbero ulteriori 10 milioni di euro
Corre veloce la Peste suina africana. Malattia virale infettiva che colpisce suini domestici e selvatici. Endemica in Sardegna, da gennaio del 2022 quando è stato accertato il primo caso di positività in una carcassa di cinghiale in Provincia di Alessandria, si è propagata velocemente sul territorio nazionale, in particolare in Liguria e Piemonte, con focolai anche nel Lazio. Uno scenario che ha costretto le regioni limitrofe, Lombardia ed Emilia Romagna a far scattare l’allarme rosso.
Certo, non è trasmissibile all’uomo e non rappresenta un pericolo per la salute dei cittadini (anche se l’esperienza ci ha insegnato a non sottovalutare lo spillover e l’espansione nelle zone urbane dei cinghiali, che trovano nella spazzatura una fonte di nutrimento, aumenta il rischio di diffusione della malattia tramite il “fattore umano”). Ma le conseguenze a livello economico e sociale fanno tremare i polsi: a bocce ferme le associazioni di settore suinicolo stimano perdite per l’export di circa 20 milioni di euro al mese. E se il quadro dovesse peggiorare la perdita economica nel nostro Paese schizzerebbe a 60 milioni.
L’Italia ha già attivato le contromisure per rallentare la diffusione dell’onda epidemica. Tra le molte: sono state individuate le zone soggette a restrizione; recintate le aree infette attraverso barriere (reti metalliche a tratti elettrificate) per limitare i movimenti dei cinghiali; bloccate le attività a rischio con divieti di caccia, trekking, raccolta di funghi, pesca. E ancora, abbattuti cinghiali e ricercate le carcasse veicolo di trasmissione del virus.
Ma non si può abbassare la guardia, come spiega Angelo Ferrari, nominato dal Governo nel 2022 Commissario straordinario alla peste suina africana. In questa intervista tira le somme di un anno di attività e indica le strategie future da seguire per arrivare all’eradicazione della malattia. Biogna però mettere sul piatto risorse aggiuntive per continuare con le attività di prevenzone e dare ristori agli allevatori colpiti.
Dottor Ferrari, nonostante la peste suina non sia trasmissibile all’uomo è sicuramente un’emergenza per il nostro Paese. Cerchiamo di capire perchè?
È un fenomeno con un impatto economico e sociale molto importante. Già nel nome è insita la sua pericolosità. È una malattia pestifera e nel momento in cui dovesse arrivare ai suini domestici provocherebbe una strage dal punto di vista della mortalità degli animali, ma anche e soprattutto uno tsunami economico: si bloccherebbe immediatamente non solo la commercializzazione ma tutto il mercato sia nazionale, sia comunitario che internazionale. Già oggi, solo per il mancato export, senza contare i danni locali, la perdita è stata quantificata da Assica in 20 milioni di euro al mese, che schizzerebbero a 60 milioni nel momento in cui si verificasse il passaggio dal suino selvatico a quello di allevamento. Se poi disgraziatamente la peste suina dovesse entrare in un’area ad alta produzione coinvolgendo, ad esempio, le aree di produzione del prosciutto di Parma o del San Daniele, potremmo avere una perdita economica fino a 2 punti di PIL.
Ma il danno sarebbe incalcolabile, nel caso in cui obbligasse alla sospensione delle produzioni Dop. Ecco il motivo per cui l’Italia, che nell’agroalimentare ha un grossissimo punto di forza, non può permettersi di prendere sottogamba questo problema. L’obiettivo da perseguire con determinazione è la sua eradicazione.
Qual è lo stato dell’arte della peste suina?
In questo momento abbiamo due Regioni, Piemonte e la Liguria, inserite nell’area di restrizione II, dove sono state rinvenute le carcasse positive, finora sono stati accertati 222 casi positivi in Piemonte e 103 in Liguria. Invece nella zona di restrizione I, cioè nella zona buffer, ci sono quelle Regioni toccate marginalmente, ossia Lombardia ed Emilia-Romagna. Poi c’è il Lazio che si posizione in entrambe le aree e dove siamo fermi, per fortuna, a 48 casi positivi, più due fatidici casi di suini di allevamento positivi, che sono stati prontamente abbattuti.
Le Regioni come stanno rispondendo?
Attraverso la struttura commissariale più volte mi sono confrontato con la Conferenza delle Regioni per coordinarci con servizi veterinari di tutte le Regioni, non solo quelle direttamente coinvolte. C’è stata una grande collaborazione soprattutto da parte delle Regioni limitrofe a quelle a maggior rischio. L’Emilia-Romagna e la Lombardia sono intervenute con stanziamenti economici aggiuntivi importanti quando sono terminati i fondi per il posizionamento delle reti di contenimento, che lo ricordo sono uno dei pilastri dell’attività del Commissario, forse quello più critico. L’intervento di queste due Regioni è stato fondamentale per procedere alla chiusura dei lotti a rischio.
Quali sono ora le strategie future?
Come ho già detto, la strategia principale da seguire è, e deve continuare a essere, quella dell’eradicazione della malattia. Su questo fronte devo sottolineare che i servizi veterinari hanno svolto un lavoro fondamentale creando quel vuoto sanitario necessario ad evitare il salto della malattia da animale ad animale. Le armi principali a nostra disposizione per raggiungere l’obiettivo sono le reti di contenimento e il depopolamento dei cinghiali nelle aree infette, che deve procedere in modo centripeto, partendo dall’esterno della zona infetta e muovendosi progressivamente verso l’interno. Ma c’è anche un’altra leva sulla quale mi sono fortemente battuto, ossia la ricerca all’interno delle Zone di Restrizione, delle carcasse, serbatoio principale di infezione: va effettuata soprattutto nella zona esterna alle reti, in questo modo permette di comprendere meglio come si muove la malattia (abbiamo infatti visto che si è spostata dal Piemonte alla Liguria sia a Est che a ovest), e con quale velocità. Soprattutto le carcasse vanno rimosse in sicurezza.
Ma è anche importante l’attività di informazione di formazione. Così com’è essenziale sostenere economicamente quel mondo produttivo che in questo momento, in particolare nelle zone infette e nelle zone di restrizione, è fermo.
Ecco parliamo di risorse. Una nota dolente?
Purtroppo sì. Mancano all’appello più di 10 milioni di euro per proseguire con le attività di prevenzione e di eradicazione della malattia. Con le risorse messe precedentemente a disposizione, circa 10 milioni di euro, abbiamo posto più di 120 km di barriere, rispetto ai 144 previsti (pensiamo che in Belgio, nostro Paese di riferimento strategico, sono stati posti 350 km di reti), ed effettuato gli espropri necessari (le reti spesso devono essere posizionate su aree private). Ma ora i fondi disponibili sono finiti e, per concludere i lavori previsti, per riparare le barriere che hanno subito degli sfondamenti e per coprire i costi assicurativi, abbiamo chiesto al Governo, come già al precedente, 6.700.000 euro, ai quali vanno aggiunti 4 milioni per posizionare le nuove barriere necessarie a causa dell’espansione della malattia, come è stato richiesto dal Gruppo operativo degli Esperti del Ministero della Salute. Bisogna anche pensare a un ristoro per quegli allevatori che sono fermi da un anno e a risorse strategiche per favorire la biosicurezza negli allevamenti. Insomma, occorre un ulteriore sforzo se vogliamo arrivare all’eradicazione della peste suina.
Ester Maragò – quotidiano sanità
13 febbraio 2023