(Milena Gabanelli e Francesco Tortora – corriere.it) – Nel mondo post-pandemia delle dimissioni di massa e dell’ormai endemica carenza di personale, si sta facendo strada la settimana lavorativa di quattro giorni. Nel 2023 in almeno 18 Paesi decine di imprese la stanno attuando o sperimentano progetti pilota. La scommessa prevede che lavorando un giorno in meno, ma a stipendio pieno, diminuisca l’assenteismo e aumenti la produttività. Ne beneficerebbero l’ambiente grazie alla riduzione di CO2, la qualità di vita dei lavoratori e le aziende, che diventerebbero più attrattive per personale qualificato e motivato.
2018: IN NUOVA ZELANDA PARTE LA SETTIMANA CORTA
Tra i primi sostenitori della settimana corta si può annoverare l’economista inglese John Maynard Keynes che nel saggio del 1930 «Possibilità economiche per i nostri nipoti» vedeva l’opportunità «di lavorare solo 15 ore a settimana entro un paio di generazioni». Da allora la politica ha rispolverato periodicamente l’idea di lavorare meno a parità di retribuzione. Nel 1956, l’allora vicepresidente degli Usa Richard Nixon dichiarò che la svolta sarebbe arrivata «in un futuro non troppo lontano». Oggi a rilanciarla concretamente è «4 Day Week Global»: la Ong senza scopo di lucro ha esteso a livello internazionale l’esperimento di «Perpetual Guardian», una società fiduciaria neozelandese con 240 dipendenti che dal 2018 ha adottato con successo la settimana lavorativa di 4 giorni. L’iniziativa prevede che in ogni Paese aderente un gruppo di aziende partecipi a un progetto pilota di 6 mesi basato sul modello «100:80:100»: 100% dello stipendio ai dipendenti che però lavorano l’80% delle ore previste (di solito 32) e si impegnano a raggiungere gli stessi risultati che si conseguirebbero lavorando 5 giorni a settimana.
I TEST NELLE AZIENDE USA E GRAN BRETAGNA
A inizio 2022 è stato condotto il primo importante test scientifico monitorato dai ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Oxford, del Boston College e coordinato da «4 Day Week Global». Trentatré piccole e medie imprese sparse tra Usa, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Irlanda, Regno Unito, che impiegavano complessivamente 903 dipendenti, hanno deciso di seguire il modello «100:80:100». Alla fine del periodo di prova, su 27 società interpellate, nessuna ha dichiarato di voler tornare alla settimana di 5 giorni. Gli indicatori hanno dimostrato che l’esperienza era stata positiva. In media durante il test i ricavi delle aziende sono aumentati dell’8%, l’assenteismo si è ridotto (da 0,6 a 0,4 giorni al mese) e le dimissioni sono leggermente diminuite. Da giugno a dicembre 2022 un nuovo progetto pilota seguito dagli stessi ricercatori è stato lanciato nel Regno Unito: coinvolte 72 aziende con oltre 3.300 dipendenti. Si tratta di banche, società di marketing, assistenza sanitaria, servizi finanziari e vendita al dettaglio. A metà del periodo di prova l’89% delle imprese ha espresso la volontà di continuare l’esperienza nell’anno successivo. La produttività è migliorata «leggermente» per il 34% delle aziende, «in modo significativo» per il 15%, mentre il 46% ha risposto che è rimasta praticamente la stessa, nonostante tutti lavorassero un giorno alla settimana in meno.
EUROPA: IN CORSO I PROGETTI PILOTA
Negli ultimi anni la settimana corta si sta testando soprattutto in Nord Europa. Ha iniziato l’Islanda, che tra 2015 e 2019 l’ha sperimentata nel settore pubblico: le ore lavorative sono passate da 40 a 35 da smaltire in 4 giorni senza alcun taglio di retribuzione. Il test, al quale hanno partecipato circa 2.500 dipendenti, è stato così positivo da essere esteso al settore privato. Oggi nel Paese l’86% della popolazione lavora con l’orario ridotto. Progetti pilota si stanno conducendo in Germania su 150 aziende e in Irlanda su 20. In Lituania dal 2023 chi ha figli sotto i 3 anni e lavora nel settore pubblico può scegliere la settimana corta, e in Scozia a inizio 2022 il governo ha lanciato un fondo di 10 milioni di sterline per finanziare le società che vogliono partecipare all’iniziativa. Nel dicembre 2022 è stata la volta della Spagna che ha finanziato un fondo governativo di 10 milioni di euro destinato a circa 70 piccole e medie imprese. Ognuna di queste aziende, che applicano una riduzione di almeno il 10% dell’orario di lavoro e si impegnano a mantenerlo per almeno 2 anni, riceve dal Ministero dell’Industria fino a 150 mila euro. Infine c’è il Belgio: dal 21 novembre scorso, e per un periodo di 6 mesi, le aziende possono concedere ai lavoratori la settimana corta senza tagli di stipendio, mantenendo però lo stesso numero di ore lavorative, ovvero 36. In Italia per ora solo Banca Intesa ha lanciato in fase sperimentale la settimana corta su circa 200 filiali, accoppiata a 4 mesi di smart working. E come per i dipendenti belgi, lavorando un giorno in meno le ore da passare in ufficio salgono a 9.
PRODUTTIVITÀ E LAVORO
I promotori della settimana corta sostengono che la produttività individuale aumenta con il diminuire dell’orario di lavoro settimanale. Questa scommessa, almeno in Europa, è confermata dalle ultime statistiche dell’Ocse. I Paesi dell’Europa occidentale dove si lavora più ore all’anno (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) hanno tra i tassi di produttività più bassi. Dall’altra parte i Paesi che lavorano meno ore all’anno (Germania, Danimarca, Austria e Svizzera) presentano tassi di produttività più alti. Inoltre, chi fa la settimana corta – spiegano i ricercatori del Boston College – tende a utilizzare il terzo giorno libero per appuntamenti dal medico o altre commissioni personali che altrimenti dovrebbe stipare in una giornata lavorativa.
UN PRIVILEGIO NON PER TUTTI
Secondo gli esperti il datore di lavoro del XXI secolo non può più trascurare il benessere psicofisico dei propri dipendenti.
Potrebbe essere l’inizio di un cambiamento epocale, ma immaginare una società dove tutti lavorano solo quattro giorni resta un’utopia perché esistono impieghi, come nel trasporto pubblico, nei servizi sanitari o d’emergenza, che richiedono una presenza fissa sette giorni su sette. In questi settori, dove ai dipendenti sono richiesti sempre turni più lunghi, applicare l’orario di lavoro ridotto richiede un aumento del personale e di conseguenza l’insostenibilità dei costi.
Lo dimostra l’esperimento fatto tra il 2015 e il 2017 a Göteborg in Svezia: per due anni le infermiere della casa di cura per anziani Svartedalen hanno lavorato 6 ore giornaliere anziché 8, ma in breve tempo il sistema si è rivelato ingestibile economicamente. Inoltre – per i critici – creare una differenza troppo marcata tra i lavori d’ufficio e gli altri impieghi rischia di aumentare le diseguaglianze sociali.
corriere.it