In Veneto a chiamarli è il 70% dei nosocomi, in Liguria il 60% e in Toscana e Piemonte il 50%. Gli ospedalieri protestano: i liberi professionisti con la flat tax pagano ora il 15% di tasse anziché il 41%. E la privatizzazione della sanità avanza
PAOLO RUSSO, LA STAMPA. «È sconfortante, ogni sera mi ritrovo in reparto un medico diverso. Ma lo sa che poche sere fa, in uno dei più affollati pronto soccorso di Milano, a gestire i pazienti era un medico dei trasporti? Quelli che certificano il rinnovo delle patenti, per capirci. Solo che finito il doppio turno è andato a incassare il suo bel gettone da 1.200 euro». A Giorgio, primario in un ospedale lombardo che preferisce rimanere anonimo, bastano poche parole per far capire perché il boom dei medici a gettone non minacci solo i bilanci della sanità pubblica ma anche la salute dei pazienti. «Il ricorso sempre più massiccio ai medici in affitto rappresenta un pericolo per la salute dei cittadini per almeno tre ordini di motivi», spiega Pierino Di Silverio, segretario nazionale del principale sindacato dei camici bianchi ospedalieri, l’Anaao. «Prima di tutto si tratta di medici privi di specializzazione o che quando ne sono in possesso finiscono in altri reparti, tipo l’ortopedico che va in cardiologia. Poi, non essendo inseriti in un’équipe ospedaliera hanno maggiore difficoltà a interagire con i loro colleghi interni. Infine il paziente lo vedono una volta e basta, mandando a farsi benedire sia la continuità assistenziale che il rapporto umano di fiducia».
I carabinieri dei Nas nell’ultimo giro di ispezioni si sono imbattuti in medici generici impiegati come ginecologi, non specializzati alle prese con i pazienti gravi dell’emergenza-urgenza, over 70 o dottori che staccavano dall’ospedale pubblico per fare il doppio lavoro nella Coop. Il problema di base è che per turare le falle nelle piante organiche i direttori generali delle aziende ospedaliere indicono bandi senza regole. Perché alla fine la scelta del medico da spedire magari nella trincea del pronto soccorso la fa la cooperativa. Mentre per lavorare da dipendenti nella medicina d’emergenza serve aver superato un concorso pubblico, al quale si accede solo previa presentazione di una sfilza di requisiti e specializzazioni, come quella in medicina d’urgenza o un titolo equivalente. Con i gettonisti il criterio diventa invece quello del prezzo più basso. Che in media è però sempre di quattro volte superiore al costo orario di un medico dipendente.
A minare la sicurezza dei pazienti sono poi i turni doppi e tripli ai quali i medici in affitto si sottopongono per guadagnare più soldi possibile. Una pratica equiparabile alla roulette russa, quando ci si trova di fronte un medico che ha alle spalle 36 o 48 ore ininterrotte di lavoro, mentre per legge non se ne dovrebbero fare più di 12. Mesi fa una giovane è morta poche ore dopo aver dato alla luce il figlio. Uno dei dottori che l’aveva in carico era al lavoro da 36 ore, secondo alcune testimonianze raccolte dalla procura competente che sul caso ha aperto un’inchiesta. E non si pensi che imbattersi in un gettonista sia una rarità. Oggi, soprattutto nei pronto soccorso, un medico su dieci è in affitto. Almeno tre su dieci negli ospedali più grandi e sotto organico di Milano, Venezia e Torino.
In Lombardia, secondo i dati della Regione, i turni gestiti dalle cooperative sono oltre 45 mila l’anno, in Veneto 42 mila, mentre in Emilia Romagna ci si limita a circa 600 turni al mese. Secondo la Simeu, la società scientifica della medicina di emergenza e urgenza, ad eccezione di Abruzzo, Sicilia, Calabria, Basilicata, Alto Adige e la piccola Valle d’Aosta, in tutte le altre 15 regioni si fa ricorso ai medici a chiamata. Con contratti d’appalto che vanno da qualche centinaio di migliaia di euro a uno-due milioni per ciascun ospedale che vi fa ricorso. In Piemonte a chiamarli è il 50% dei nosocomi, in Veneto il 70%, in Liguria il 60% e in Toscana il 50%, ma in Friuli Venezia Giulia, Marche e Molise non c’è ospedale dove non siano presenti. In Molise si è andati a pescarli fino in Venezuela, mentre in Trentino ci si è limitati a chiedere una mano ai più vicini calabresi. A sua volta in Calabria il governatore Roberto Occhiuto (FI) ha reclutato i primi 51 dei quasi 500 medici cubani chiamati a sopperire alle carenze di organico, senza subire il salasso dei medici a gettone. «Che qui in Calabria – spiega – costano 150 euro l’ora, ossia 1.200 euro per un turno di 8 ore, mentre i professionisti arrivati da Cuba riceveranno un compenso di 4.700 euro lordi al mese».
Ma, cubani a parte, nelle altre regioni le cooperative fanno affari d’oro. La Anthesys di Treviso, che di dipendenti ne ha 390, nel 2021 ha quasi raddoppiato i ricavi, passati da 8,8 a 14 milioni. E così la Medical Service Sudtirol che nel 2021 ha brindato a un più 30% di ricavi. Perché con 15 mila medici che mancano all’appello in corsia non c’è da stupirsi che si debba fare sempre più ricorso ai camici bianchi in affitto. Le cui fila sono ogni giorno rinforzate da chi scappa dal pubblico. Anche perché un gettonista anestesista per un turno di 12 ore può incassare tra i 1.200 e i 1.800 euro. Quasi la metà di quello che guadagna un collega dipendente di un ospedale pubblico per un mese di lavoro.
Per uscire da questa impasse il ministro della Salute, Orazio Schillaci, propone di far lavorare di più i camici bianchi ospedalieri pagandoli extra e di abbattere il numero chiuso nelle facoltà di medicina. Proposte rispedite al mittente dai diretti interessati. «Vogliamo essere retribuiti adeguatamente per il nostro lavoro quotidiano e invece si avvantaggiano i liberi professionisti che con la flat tax pagano ora il 15% di tasse anziché il 41%», replica Di Silverio. Che nell’accesso libero alle facoltà di medicina vede soltanto il rischio «di sostituire all’imbuto formativo quello lavorativo, visto che tra circa sei anni avremo un maggior numero di medici grazie all’aumento delle borse di studio». Salvo il fatto che i giovani snobbano specializzazioni che, come medicina d’emergenza, offrono poi poche possibilità di integrare lo stipendio nel privato. «Per questo – conclude Di Silverio – l’unica strada percorribile è rimotivare i giovani, migliorando retribuzioni e condizioni di lavoro negli ospedali». —