Veronese (Uil): “Le priorità si sono modificate anche nella testa dei dipendenti”
Da un lato c’è la voglia di un lavoro più in linea con le proprie aspettative; dall’altro un mercato finalmente dinamico. All’interno del quale ci si può muovere. Grazie anche a una crescita economica che, per quasi tutto il 2022, ha superato le attese degli analisti. Di certo dei quasi 1,7 milioni di lavoratori che nei primi nove mesi dell’anno scorso hanno lasciato l’impiego, la stragrande maggioranza lo ha fatto per un altro lavoro. Insomma, per scelta o per necessità, per guardare avanti rispetto alla propria occupazione e carriera o per far meglio conciliare le esigenze della famiglia, si consolida una tendenza in atto da quasi due anni. Nei primi nove mesi del 2021, le dimissioni erano state 1,3 milioni; il 22% in meno. La fotografia arriva dagli ultimi dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro. E tra le cause di cessazione dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la scadenza dei contratti a termine, la quota più alta. Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6% (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui il trend positivo partito dal secondo trimestre 2021, seppure con una variazione inferiore rispetto ai trimestri precedenti.
Addirittura, l’Osservatorio del Politecnico di Milano sulle risorse umane, rileva come nell’ultimo anno il tasso di turnover sia aumentato per il 73% delle aziende con il 45% degli occupati che dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Numeri che crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Ma a conferma di quanto la percezione del lavoro sia cambiata, tra le persone che hanno lasciato il proprio impiego, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni. Chi cambia, quindi, lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), per una maggiore salute fisica o mentale (24%) o per inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%).
Ma le cifre indicano anche come risalga il numero dei licenziamenti, dopo la fine del blocco deciso con la crisi pandemica: tra gennaio e settembre 2022, infatti, sono stati circa 557mila i rapporti interrotti per decisione del datore di lavoro contro i 379mila nei primi nove mesi del 2021, con un aumento del 47% rispetto ad un periodo in cui era però in vigore il blocco.
Per Giulio Romani della Cisl bisogna «rivedere i modelli organizzativi verso una maggiore qualità», visto che le imprese in cui si sviluppa benessere lavorativo e qualità del lavoro sono una minoranza e sono quelle dai 10 ai 250 dipendenti. Ma la platea delle imprese italiane, spiega, «è però occupata per circa il 95% da microimprese, quelle con la minore produttività, all’interno delle quali mediamente si fatica di più a sviluppare forme di welfare integrativo e dove non si pratica la contrattazione aziendale e non si costruiscono sistemi premianti trasparenti». «L’aumento delle dimissioni – spiega Tania Scacchetti della Cgil – può avere spiegazioni molto differenti: da un lato può positivamente essere legata alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ‘agile’, dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche ad uno scarso coinvolgimento e ad una scarsa valorizzazione professionale da parte delle imprese». Per Ivana Veronese della Uil «le priorità si sono modificate anche nella testa delle lavoratrici e lavoratori: se da qualche parte c’è uno smart-working più flessibile, se la retribuzione dove lavoro è troppo bassa o gli orari troppo disagevoli, se ho voglia di provarci davvero, un lavoro, magari anche sicuro, lo si può lasciare». —
La Stampa