Da anni le associazioni animaliste e quelle dei consumatori spingono perché, laddove sia possibile, venga utilizzato il farmaco umano. Ma per ora il mondo della politica non ha ancora risposto a queste richieste e questo ricade non solo sui proprietari di animali, ma anche sulla spesa pubblica.
ELEVATE DIFFERENZE DI PREZZO
Sono ormai molti i confronti pubblicati online che mettono in evidenza elevate differenze di prezzo. Sul sito Farmacoveterinario.it sono gli stessi medici veterinari a riportare alcuni confronti significativi. Il metoclopramide, un farmaco usato per curare le gastriti e contrastare il vomito, ha un costo a uso umano di circa 1,89 euro alla scatola. Mentre quello veterinario è di circa 10 euro. Il rapporto è di oltre 1 a 5.
In medicina veterinaria 100 mg di furosemide, un principio attivo usato per aumentare la diuresi (cioè la produzione di urina stimolando il rene a una maggiore filtrazione) costa circa 1,25 euro, mentre in umana la stessa quantità costa 0,19 euro. Il farmaco veterinario ha quindi un costo 6,5 volte superiore a quello umano, a parità di dosaggio.
Un altro esempio arriva dal ramipril, il principio attivo previsto dai farmaci utilizzati nella terapia di malattie cardiache croniche, quindi utilizzate per l’intera durata della vita del cane dopo averne riscontrata la malattia. Secondo quanto riporta il sito la confezione di farmaco a uso veterinario costa quasi 10 volte di più (per l’esattezza 9,8 volte) dell’equivalente a uso umano.
IL MECCANISMO A CASCATA
In Italia la normativa che regola l’uso e la prescrizione dei farmaci veterinari è il Decreto Legislativo 193/2006 che prevede un cosiddetto “meccanismo a cascata”: in primo luogo il farmaco che il veterinario può prescrivere è quello destinato a quella specie animale e per quella patologia. Se non si trova un prodotto adatto, se ne può prescrivere un altro previsto per un’altra specie animale o per un’altra affezione della stessa specie animale.
In mancanza di questo il veterinario può ricorrere a un medicinale autorizzato per l’uso umano (in tal caso il medicinale può essere autorizzato solo dietro prescrizione medico veterinaria non ripetibile) o può essere utilizzato un medicinale veterinario autorizzato in un altro Stato membro dell’Unione europea conformemente a misure nazionali specifiche, per l’uso nella stessa specie o in altra specie per l’affezione in questione, o per un’altra affezione. In ultima istanza può essere dato un medicinale veterinario preparato estemporaneamente da un farmacista in farmacia a tale fine, conformemente alle indicazioni contenute in una prescrizione veterinaria.
UNA SPESA CHE PESA SU TUTTI GLI ITALIANI
C’è una differenza fondamentale nell’utilizzo dei farmaci in medicina umana e quelli in veterinaria. Nella prima lo Stato ha un approccio diretto perché in molti casi è lui stesso che copre il costo del farmaco. Per questo, se esiste la versione “generica” del medicinale, lo Stato spinge perché venga utilizzato quella versione in quanto risparmio diretto per la spesa pubblica. Dunque per le tasche di tutti gli italiani.
Nel caso dei farmaci veterinari lo Stato non ha un intervento diretto e quel mercato potrebbe considerarsi come fonte di “entrata” per le casse erariali grazie all’iva al 22 per cento applicata. Ma in realtà l’elevato prezzo dei medicinali è un costo anche per lo Stato che è il maggior detentore di animali con la gestione dei canili. Questa voce pesa infatti sul bilancio di spesa per la cura dei cani che, secondo quanto riporta un rapporto della Lav (“Randagismo 2016. Cosa è cambiato negli ultimi 10 anni”) nel 2015 ha sfiorato i 118 milioni di euro. Cifra che, moltiplicata per sette anni, tempo medio della permanenza in canile di un cane in assenza di adozione, supera gli 825 milioni di euro.
Gli attuali prezzi elevati dei farmaci veterinari possono comportare un altro problema per le casse dello Stato: quando un proprietario di cane o gatto si trova ad affrontare una malattia cronica e costosa, può capitare che si rivolga ad altri soggetti, diversi dai medici veterinari, chiedendo loro la prescrizione di farmaci per uso umano con i principi attivi utili per le cure animali. In tal caso, non solo lo Stato si vede privare delle entrate dell’Iva, ma vede inconsapevolmente vendere prodotti pagati in toto o in parte dal sistema sanitario nazionale. Una duplice perdita.
La Stampa – 18 aprile 2017