Scaffali del supermercato miseramente vuoti. Sacchetti venduti in aste su Internet a prezzi clamorosi, a oltre dieci euro, almeno sei volte il loro costo abituale. Tristezza online, con adulti e bambini sui social network che chiedono il ritorno del loro snack preferito. E c’è chi ne ha approfittato per fare scorta, comprandone quattro scatoloni.
Non è certo la grande carestia delle patate che fece strage in Irlanda nel 1845. Ma certo da qualche giorno il Giappone ha un problema con le patate. Anzi, con le patatine. In drogheria e al supermercato non si trovano più, a causa di quattro potentissimi tifoni che lo scorso agosto hanno distrutto gran parte delle piantagioni nella regione di Hokkaido, hub dell’agricoltura giapponese dove viene coltivata l’80 per cento di tutta la produzione di patate nel Paese. Risultato: il peggior raccolto negli ultimi 34 anni. Un guaio, perché i giapponesi vanno pazzi per le patatine: quelle della Calbee, il maggior produttore nel Sol Levante, sono gli snack più amati nel Paese, secondo un sondaggio della tv locale Asahi.
Le conseguenze di quel maltempo catastrofico, il peggiore nell’area da oltre un secolo, ora si fanno sentire. Lunedì scorso la Calbee, che è di proprietà della Pepsi e che controlla il 73 per cento del mercato delle patatine giapponesi, ha detto basta: vista la scarsità di materia prima, ha annunciato il blocco delle vendite, dal 22 aprile, di almeno quindici varietà delle sue sfoglie croccanti. Subito si è scatenato il panico: i giapponesi si sono fiondati a caccia dell’ultimo sacchetto, polverizzando le scorte dei negozi. Nel frattempo, online sono spuntate aste di patatine, orami beni rari, il prezzo di una confezione è schizzato a oltre 1250 yen, quasi 11 euro al pacchetto, mentre in genere non costa nemmeno due euro. La Calbee ha quindi anticipato a mercoledì scorso lo stop alle vendite. Troppo tardi. Anche Koyke-ya, il secondo produttore di patatine nel Sol Levante, ha annunciato la stessa misura. Le due aziende sono cadute in borsa. E il Giappone si è ritrovato senza le amatissime patatine.
Ma quanto durerà questa “carestia”? «Non lo sappiamo», ha dichiarato Marina Fukaya, responsabile relazioni esterne Calbee. «La questione è seria, lo vediamo su Twitter, ma ora non possiamo sbilanciarci con date certe». Perché la produzione di patate dell’isola giapponese di Kyushu non basta a colmare la voragine di Hokkaido. E il Giappone, anche per scelta protezionistica verso la propria agricoltura, importa pochi tuberi: per il premier nipponico Shinzo Abe è un “settore sacro” da preservare, come del resto aveva ripetuto anche durante i negoziati del Tpp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Giappone e altri paesi del Pacifico firmato da Obama e affondato da Trump. Non a caso, solo nel 2006, dopo un bando lungo 56 anni, il Giappone ha riammesso l’importazione di patate americane, che oggi costituiscono quasi la totalità di quelle fresche ammesse dall’estero. «Il 60 per cento delle patate della Calbee proviene dal Giappone», precisa Fukaya, «come azienda vorremmo importarne di più, ma spesso sono di bassa qualità».
Il problema di questo approccio “autarchico” è che in caso di catastrofi naturali le materie prime domestiche creano un abisso. Negli ultimi tempi, il prezzo delle patate in Giappone è salito fino al 20 per cento al mese. Di questo passo, le patatine non potrebbero essere le uniche vittime: la crisi potrebbe allargarsi anche in altri settori del Sol Levante, come ristoranti e fast-food. Anche perché, ironia della sorte, secondo le leggi giapponesi le patate fresche importate possono essere utilizzate per produrre soltanto… patatine.
Repubblica – 17 aprile 2017