Una delle grandi occasioni perse dal governo Renzi è stata un’incisiva riforma dell’amministrazione pubblica italiana. Lo dicono i dati.
Fatta 100 la frontiera tecnologica di come una burocrazia di un Paese avanzato può gestire regolamentazione, risorse umane, incentivi, servizi pubblici, trasparenza dei processi decisionali (caso in specie: il Canada o la Nuova Zelanda), l’Italia è a 20. La media dei Paesi economicamente avanzati è 60. Questi sono nuovi dati recentemente pubblicati dal International Civil Service Effectiveness (InCiSE) Index della scuola di amministrazione pubblica dell’Università di Oxford. L’InCiSE compara l’amministrazione pubblica statale di 31 Paesi, di cui 22 europei, utilizzando una serie di indicatori provenienti da varie fonti e sintetizzando i risultati in un indice di efficacia amministrativa. L’Italia risulta al 27esimo posto, precedendo solo Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria e Slovacchia.
Molto si è parlato negli ultimi tempi di produttività delle aziende italiane e di come stimolarne la crescita. A seconda del settore, le interazioni con la Pa rappresentano una voce di costo di varia entità che in maniera diretta entrano nel calcolo della produttività del lavoro per le nostre imprese (quanto valore aggiunto l’azienda riesce a ottenere per unità di lavoro). Sulla base di questo indice, tale voce di costo potrebbe essere cinque volte più alta per un’azienda italiana che canadese.
Quando uno dei due autori di quest’articolo deve rinnovare la patente di guida in Canada, sono sufficienti 15 minuti all’ufficio della motorizzazione civile di Vancouver e l’equivalente di 50 euro. Quando lo stesso autore deve eseguire la stessa procedura in Italia, l’attesa è nell’ordine di alcuni giorni e, a meno che non si abbia un costo opportunità del proprio tempo pari a zero, si devono fare pratiche attraverso autoscuole al costo di circa 120 euro.
Sembra un esempio sciocco, ma non proprio. Negli anni novanta l’economista peruviano Hernando de Soto fondava nelle periferie di Lima piccole imprese sartoriali dotate di pochi dipendenti e due macchine da cucire e ne misurava gli ostacoli burocratici all’attività commerciale. Con una serie di misurazioni di questo tipo de Soto ha poi ispirato il professore di Harvard Andrei Shleifer e i suoi collaboratori a estendere tali misurazioni a livello internazionale e, successivamente, la Banca Mondiale a sviluppare il più comprensivo report Doing Business. Si tratta, insieme al più nuovo InCiSE, di uno dei principali indicatori dei costi indiretti imposti alle imprese dalla cattiva gestione della Pa, e probabilmente il più famoso. Per intenderci, il governo Renzi cercava di puntare al miglioramento dei rating del nostro Paese sui vari indicatori del DB in maniera esplicita. Nel report più recente (il DB2017 basato su dati aggiornati al 1 giugno 2016) l’Italia si posiziona al numero 33 tra i 57 Paesi ad alto reddito (e al numero 50 nella graduatoria completa dei 190 Paesi presi in esame).
Tornando al InCiSE, non tutte le voci sono negative. La Pa italiana è sopra la media in termine di politiche di uguaglianza di genere, in aspro contrasto con un mercato del lavoro privato italiano che ancora discrimina donne per opportunità di impiego e carriera (e che ci costa diversi punti di Pil in termini di talenti produttivi misallocati e bassa partecipazione al lavoro femminile). La Pa italiana fa bene, posizionandosi sopra la media, per quanto riguarda la capacità di gestione delle crisi, indicatore che comprende la capacità di pianificare, comunicare, monitorare i rischi e di coordinamento e valutazione post-crisi. Va anche bene l’indicatore sull’efficienza della sicurezza sociale, misurato attraverso l’incidenza dei costi di gestione sul totale delle spese.
Ma molte (troppe) altre voci sono negative o solo all’apparenza positive.
Consideriamo le risorse umane. Un fattore fondamentale per un’amministrazione efficace è la qualità delle persone che ci lavorano e per questo motivo la gestione del personale ha un ruolo strategico. La capacità di attrarre e mantenere all’interno della Pa persone di talento implica, da un lato, una remunerazione che sia competitiva con quella offerta nel settore privato per posizioni di livello simile, dall’altro, canali di accesso ai ranghi della Pa meritocratici e non clientelari. Questi due meccanismi sembrano ancora completamente scollegati in Italia, nonostante gli sforzi del governo attuale e del precendente.
Le retribuzioni dei nostri amministratori pubblici sono tra le più generose dei Paesi Ocse, specialmente a livelli dirigenziali. Questo potrebbe essere un fattore positivo, se giocasse un ruolo nell’attrarre talento nel settore pubblico. Ma allo stesso tempo, il Paese si posiziona all’ultimo posto per quanto riguarda il livello di competenza del personale dell’amministrazione pubblica, misurato attraverso il livello di istruzione, le competenze linguistico-matematiche e la capacità di risoluzione di problemi complessi. Da questo punto di vista la pubblica amministrazione è uno specchio fedele del Paese nel suo complesso, visto che le competenze medie degli adulti italiani sono tra le più basse nei Paesi ad alto reddito.
A fronte della bassa qualità dei servizi misurata, le alte remunerazioni sembrano più sintomo di rendite di posizione che di incentivi contrattuali ben calibrati. Le valutazioni di molto al di sotto la media europea per favoritismo nella Pa, corruzione percepita, imparzialità nella gestione dei servizi supportano questa considerazione. Certamente un forte riallineamento delle retribuzioni dei senior managers a livelli inferiori alla media Ocse manderebbe un segnale ai contribuenti che almeno questa dimensione del problema ha raggiunto il limite della decenza politica.
Altro punto dolente dell’apparato statale, verosimilmente collegato alle basse competenze, è la scarsa capacità di gestione, misurata, tra le altre cose, dalla presenza di una prospettiva di medio periodo nella formulazione dei budget e dallo sviluppo e monitoraggio di indicatori di risultato. Il cattivo management della nostra pubblica amministrazione incide direttamente sulla posizione fiscale del paese e opera da freno sull’economia privata.
I dati della Pa 2017 sono questi, ma apparentemente in Italia c’è ancora tempo prima di una riforma che finalmente morda davvero.
Mirco Tonin è professore di Economia politica all’Università di Bolzano
Francesco Trebbi è professore di Economia alla University of British Columbia
Il Sole 24 Ore – 18 luglio 2017