Sulla base delle leggi e degli scenari demografici, il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha confermato, in un’audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera, che l’età minima per la pensione di vecchiaia dovrebbe aumentare «dai 66 anni e 7 mesi, in vigore per tutte le categorie di lavoratori dal 2018, a 67 anni a partire dal 2019». Poi, siccome la legge prevede che il requisito venga adeguato alla speranza di vita ogni due anni, si passerebbe «a 67 anni e 3 mesi dal 2021. Per i successivi aggiornamenti, a partire dal 2023, si prevede un incremento di due mesi ogni volta. Con la conseguenza che l’età pensionabile salirebbe a 68 anni e 1 mese dal 2031, a 68 anni e 11 mesi dal 2041 e a 69 anni e 9 mesi dal 2051».
Una progressione contro la quale protestano i sindacati, che chiedono al governo di bloccare il meccanismo di adeguamento. Il prossimo scatto, quello a 67 anni appunto, dovrebbe essere deciso con un decreto interministeriale (Lavoro, Economia) da emanarsi entro quest’anno (cioè 12 mesi prima che esso entri in vigore, il primo gennaio 2019). Un paio di settimane fa il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, aveva affermato che non c’era allo studio «alcun provvedimento di nessun tipo sull’aumento dell’età pensionabile». Ma è evidente che la questione dovrà essere affrontata.
Ministero e Cgil, Cisl e Uil ne riparleranno martedì nel prossimo incontro fissato sulle pensioni. Fermare o rinviare (per esempio passando da un adeguamento biennale a uno triennale) l’aggiustamento dell’età pensionabile richiederebbe una modifica alla legge (il decreto Salva Italia del 2011) e anche una copertura finanziaria, perché ovviamente ci sarebbero più persone ad andare in pensione.
Nel suo intervento, richiesto dalla commissione per valutare le proposte di legge costituzionale di Andrea Mazziotti (Civici e Innovatori) e di Ernesto Preziosi (Pd) sull’equità intergenerazionale dei trattamenti previdenziali, Alleva ha toccato anche altri temi importanti. «Nella futura dinamica demografica del Paese — ha detto — un contributo determinante sarà quello esercitato dai flussi migratori. L’Istat stima «che, fino al 2065, immigrino complessivamente in Italia 14,4 milioni d’individui. Di contro, gli emigranti verso l’estero sono stimati in 6,7 milioni. Nonostante ciò, nel 2065 la popolazione residente ammonterebbe a 53,7 milioni, «conseguendo una perdita complessiva di 7 milioni rispetto al 2016» a causa del calo delle nascite.
Tornando ai giovani, Alleva ha sottolineato l’aumento della precarietà: «Tra il 2008 e il 2016, nella classe 15-34 anni, la quota di dipendenti a termine e collaboratori aumenta passa dal 22,2% al 27,8%», con punte del 35% per i laureati. E «tra le donne il 41,5% delle occupate con lavoro atipico è madre». La precarietà dei 25-34enni farà maturare pensioni più basse. Sempre ieri l’Istat ha diffuso la nota mensile sull’economia, confermando l’aspettativa di ripresa del Pil anche se in rallentamento. Secondo il ministro dell’Economia Padoan, «il governo sta togliendo impedimenti alla crescita come i problemi del sistema bancario: il peggio è alle spalle».
Enrico Marro – Il Corriere del Veneto – 6 luglio 2017