di Sabino Cassese. Annuncio preoccupante e pericoloso, quello del sottosegretario per la Funzione pubblica, che ha lanciato un «grande progetto per il Paese», consistente in mezzo milione (ma potrebbero salire a 600 mila) di posti di lavoro nei prossimi quattro anni nelle pubbliche amministrazioni.
L’annuncio è stato seguito da un coro di consensi sindacali e ha il sapore di una promessa pre-elettorale, non fatta, però, dal presidente del Consiglio dei ministri, come dovrebbe essere, data la sua entità. Chi ha fatto l’annuncio non è consapevole del danno che un tale subitaneo allargamento dei ranghi pubblici potrebbe fare alla pubblica amministrazione stessa. Dopo il «digiuno» di questi anni di crisi, con il forte rallentamento del «turnover», fare una tale «abbuffata» provocherebbe sconvolgimenti: si pensi solo ai «maxiconcorsi», alle difficoltà che si incontrerebbero nella formazione «on the job», alla difficile sistemazione negli uffici del Nord e del Sud di circa 80 mila persone nel solo prossimo anno. La vicenda della scuola, ancora in corso, evidentemente, non ha insegnato nulla. L’annuncio, peraltro, è stato accompagnato anche da un’altra promessa, quella di far entrare nei ranghi pubblici precari e idonei. Per i primi, si tratterebbe di una ulteriore porta aperta, perché a 50 mila di questi è già stata promessa con legge una sistemazione. Per i secondi, di una elargizione immeritata, perché da tempo si usa concludere i concorsi con lunghe liste di idonei.
Queste liste vengono conservate per tempo talora immemorabile e da esse si attinge anche dopo anni, così premiando chi dal concorso era stato scartato. La sistemazione dei precari e l’assunzione degli idonei, oltre a violare la Costituzione, sono una palese ingiustizia a danno dei più giovani, quelli che non sono riusciti a infilarsi in un lavoro a tempo o in una lista di idonei.
Il «grande progetto per il Paese» annunciato dalla funzione pubblica va ad aggiungersi alle sistemazioni in ruolo nella scuola e all’allargamento degli ingressi disposto già dalla «manovrina» da poco approvata. Quest’ultima, ha triplicato i posti per i quali si può provvedere ai rimpiazzi. Prima, se uscivano quattro dipendenti, se ne poteva assumere uno, ora per ogni quattro che escono, se ne possono assumere tre (e dall’anno prossimo quattro).
Tutto questo accavallarsi di norme e annunci produce una miscela pericolosa anche per la finanza pubblica. È vero, infatti, che i nuovi entranti costerebbero meno di quelli che escono, perché hanno minore anzianità. Ma è vero anche che sta per concludersi una tornata contrattuale, che dovrebbe da sola costare intorno a tre miliardi. I nuovi trattamenti non dovrebbero essere dati anche ai nuovi entranti?
Dalla funzione pubblica si è cercato di spiegare che i rimpiazzi promessi con la grande «abbuffata» non sarebbero meccanici, ma sarebbero fatti sulla base delle nuove norme che prevedono l’esame dei fabbisogni, in modo da evitare l’«over-staffing» attuale di molti uffici pubblici. Quindi, se dieci escono da una prefettura, si valuterà se proprio lì c’è bisogno di personale e non invece al catasto. Buoni propositi. Ma il dipartimento per la funzione pubblica si è attrezzato per fare questa non semplice analisi? Possiede i dati per farla? Ha dialogato con le migliaia di uffici per accertare quali sono i carichi di lavoro, ufficio per ufficio? Se l’ha fatto, perché non rende pubblici questi dati?
C’è, poi, l’argomento, più volte ripetuto, delle minori dimensioni della nostra pubblica amministrazione, rapportata alla popolazione, rispetto a quella di altri Paesi europei. Ma questo non dipende da un difetto di calcolo del numero degli addetti alle amministrazioni pubbliche? La Ragioneria generale dello Stato e l’Istat valutano i dipendenti pubblici, ma vi sono anche altri addetti, quali, ad esempio , i dipendenti delle autorità indipendenti, le varie specie di precari e i lavoratori delle circa 8 mila società pubbliche, che non vengono messi nel calcolo.
Infine, anche se i proponenti di questa trovata lo escludono, si è subito riaffacciata l’idea di riabbassare l’età della pensione per i dipendenti pubblici, per far balenare speranze aggiuntive, mettendo insieme due spinte: le attese di chi vuole entrare e le speranze di chi vuole uscire.
In conclusione, un governo serio non dovrebbe fare promesse elettorali di questo genere, a spese non solo della finanza pubblica (che è in difficoltà), ma anche della stessa pubblica amministrazione (che non gode migliore salute). Ci si augura che Presidente del Consiglio dei ministri e Ministro dell’economia vogliano assumere le proprie responsabilità in materia, ricordando che, dopo un certo digiuno, è meglio mangiare poco e ordinatamente, piuttosto che fare una scorpacciata.
Il Corriere della Sera – 20 settembre 2017