Potrebbero essere quasi 100 mila i lavoratori pubblici che rischiano di non vedere un aumento in busta paga se andrà in porto l’ipotesi di fissare un tetto retributivo al rinnovo del contratto degli statali. Un azzeramento figlio della cosiddetta piramide rovesciata, di cui più volte ha parlato la ministra della Marianna Madia per distribuire l’aumento da 85 euro mensili medi promesso dal governo.
Il meccanismo potrebbe prevede aumenti più consistenti per chi guadagna meno e, viceversa, meno generosi per chi mensilmente incassa di più. Con un criterio del genere con risorse limitate, superata una certa soglia di retribuzione, per molti l’aumento potrebbe addirittura azzerarsi. Ipotesi che trova totalmente contrari i sindacati che chiedono all’esecutivo di rispettare l’accordo del 30 novembre 2016, che ha previsto un aumento per tutti, nessuno escluso.
Da alcune simulazioni, come anticipato ieri dal Messaggero, il tetto dopo il quale gli aumenti si annullano starebbe tra i 70 e i 75 mila euro. Un meccanismo totalmente inverso rispetto a quello utilizzato nei precedenti rinnovi contrattuali. In passato l’aumento è stato spalmato su tutti i lavoratori attraverso una percentuale fissa, che inevitabilmente ha dato di più a chi percepisce stipendi più consistenti.
Con l’ipotesi in campo, invece, a rimetterci potrebbero essere i dipendenti con stipendi più alti. Innanzitutto i medici, in quanto più della metà superano la soglia dei 70mila euro lordi all’anno (circa 65mila dottori su un totale di 130mila) e i dirigenti dell’Autorità indipendenti e delle Agenzie Fiscali, che arrivano a stipendi record da 90mila a 240mila euro.
Un meccanismo – dice il segretario nazionale Cgil medici, Massimo Cozza -«inaccettabile», che rappresenta un vero e proprio scippo». Cgil, Cisl e Uil bocciano la proposta: «Un’ipotesi del genere – dice il segretario confederale della Cgil Franco Martini – metterebbe in discussione l’impianto normativo del contratto, soprattutto per quanto riguarda la valorizzazione delle professionalità».
Ma oltretutto sostengono i tre sindacati l’ipotesi è in contraddizione con quanto deciso con l’accordo del 30 novembre scorso. In ogni caso, spiega Antonio Foccillo della Uil, «la decisione deve avvenire con la contrattazione e non di certo al ministero». E soprattutto «dopo sette anni di blocco è inimmaginabile che qualcuno non riceva un aumento». Vista poi «la scarsità delle risorse», sostiene Maurizio Petriccioli della Cisl, il meccanismo «finirebbe per generale iniquità fra gli stessi lavoratori» con il rischio «di dare aumenti esigui ai titolari di redditi medi e bassi». Finora, per garantire gli aumenti da 85 euro, il governo ha già stanziato 1,2 miliardi. La Ragioneria dello Stato sta ancora mettendo a punto le stime per capire quante sono le risorse mancanti da inserire in manovra, ma la cifra oscillerebbe intorno 1,5 miliardi. La Funzione pubblica spinge per avere le risorse necessarie a garantire l’aumento pieno, ma il Tesoro frena in quanto i numeri non sono definitivi.
Il Messaggero – 9 settembre 2017