«Ora abbiamo le carte in regola per rinnovare i contratti» bloccati dal 2010. Le parole con cui la ministra della Pa Marianna Madia ha accompagnato in conferenza stampa l’annuncio dell’approvazione dei decreti su pubblico impiego e valutazione dei dipendenti puntano dritto a uno degli obiettivi operativi delle nuove regole. Ora, in effetti, le carte sono in regola: sono i conti ad attendere invece di essere sistemati, perché per raggiungere gli «85 euro medi» di aumento a regime scritti nell’intesa del 30 novembre scorso fra governo e sindacati la strada è ancora lunga. Per la pubblica amministrazione centrale servono almeno 1,2 miliardi, che sarà compito della legge di bilancio d’autunno individuare, ma una cifra analoga occorre per enti territoriali e sanità, e saranno Regioni, Comuni e fondo sanitario a doverla finanziare.
L’interesse congiunto di governo e sindacati è comunque quello di riavviare in fretta la macchina, anche per segnare qualche punto prima dell’accelerazione verso le elezioni politiche. A stretto giro è quindi attesa la direttiva che la ministra Madia invierà all’Aran per dettagliare i criteri-guida delle trattative.
Prima di tutto, come annunciato in più di un’occasione dal governo, l’indicazione sarà quella di privilegiare nei ritocchi salariali le fasce di reddito più basse, in una sorta di piramide rovesciata che dovrebbe offrire meno a chi sta più in alto nella scala degli stipendi. Da risolvere, poi, c’è l’incrocio con il bonus da 80 euro: circa 200mila dipendenti pubblici, secondo le stime, si trovano nelle fasce di reddito fra 24 e 26mila euro dove si attua il «decalage» del bonus, e con gli 85 euro di aumenti promessi dall’intesa uscirebbero dal raggio d’azione della misura rendendo praticamente nullo l’effetto del rinnovo contrattuale. Andrà trovata, quindi, una formula per sterilizzare l’incrocio di contratti e bonus Renzi.
Il confronto sui rinnovi dovrebbe poi portare a concedere un raggio d’azione più ampio alla contrattazione decentrata, che dovrà ridefinire obiettivi e pagelle dei dipendenti pubblici per distribuire la parte variabile del salario accessorio.
Proprio su questo aspetto, del resto, i decreti approvati ieri mettono «le carte in regola», perché tolgono di mezzo le griglie rigide tentate senza successo nel 2009 con la riforma Brunetta che a partire dal primo rinnovo contrattuale avrebbero dovuto azzerare i premi al 25% dei dipendenti. In questo modo, quindi, i nuovi contratti avrebbero finito per alleggerire la busta paga a uno statale su quattro: ora toccherà alla contrattazione trovare l’equilibrio delicato fra l’esigenza di non penalizzare troppi dipendenti, spinta ovviamente dai sindacati, e quella di non trasformare la flessibilità delle nuove regole in una nuova occasione per mantenere tutto com’è.
I rinnovi, poi, dovrebbero attuare il ridisegno della Pa che concentra in quattro contratti nazionali gli attuali undici comparti. Armonizzare stipendi così diversificati, soprattutto nella Pa centrale, è però un compito troppo arduo per una sola tornata contrattuale, che si limiterà a dettare le regole di base comuni ai vari settori senza toccare le attuali differenze in busta paga.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 20 maggio 2017